La trasparenza tanto sbandierata e quella praticata. La trasparenza come ideologia e la trasparenza come prassi. La differenza si può capire facilmente in una domenica romana.

Nel carcere di Rebibbia si celebra il congresso del Partito radicale, il “transpartito nonviolento”, sogno mai realizzato di Marco Pannella, antico fustigatore della cosiddetta partitocrazia. La creatura pannelliana è rimasta un’intuizione visionaria; oggi si trova più in crisi che mai, su tutti i fronti. Il transpartito per scelta non partecipa alle elezioni, il soggetto politico italiano lo fa con fisionomia sfuggente e comunque con poca fortuna dal 1999. I soldi sono pochi, le iscrizioni languono. Ora si è aggiunta la dolorosa difficoltà di andare avanti senza il leader storico, da sempre bussola, baricentro e fonte inesauribile delle iniziative. Però il clima in casa radicale, nonostante le difficoltà su tutti fronti, non è depresso. Anzi, c’è battaglia. Nella “galassia radicale” scoppia una guerre stellare. Sulla successione, sulle prospettive, sulla gestione dei soggetti d’area. Due i fronti si contendono la prestigiosa eredità pannelliana. Da una parte l’ala “ortodossa” e non-violenta, che punta sulle battaglie ghandiane (le carceri, l’amnistia e l’indulto, il diritto umano alla conoscenza); dall’altra i boniniani che hanno in mente un’azione radicale sì (antiproibizionista, europeista, libertaria, liberista eccetera) ma tutta politica e anche elettorale. La battaglia è feroce, ma civilissima. I due gruppi, regolamento e statuto alla mano, si scontrano per due giorni su ogni singolo passaggio. Ordine dei lavori, interventi, discussione generale, mozioni, emendamenti. La battaglia è all’ultimo sangue, politicamente parlando. A tratti diventa anche guerra di cavilli, di nervi, personale. Si profila la scissione. Ma resta sempre un riferimento quasi maniacale alle norme, scritte, e agli organismi statutari. Il tutto poi avviene davanti alle telecamere, e soprattutto davanti ai microfoni di Radio Radicale. La pubblicità totale dello scontro garantisce probabilmente un esito unitario: vincono gli “ortodossi” pannelliani con 179 voti contro 79 ma la scissione non c’è. Il tutto è rimandato alla prossima battaglia.

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A pochi chilometri di distanza si consuma un altro scontro, dentro il Movimento 5 stelle. Anche il Movimento viene considerato estraneo al sistema dei partiti, ma al contrario dei Radicali ha il vento nelle vele: masse di elettori, attivisti che lo blandiscono ormai da anni come la bestia nera della “casta” dei partiti . Parla da anni di trasparenza, di streaming, di selezione on line dei candidati, anzi dei “portavoce”, si organizza mediante meet up e in politica proclama la fine della nozione stessa di dirigenza: eletti ed elettori sarebbero uguali, grazie alla rete, e infatti gli eletti dichiarano di voler rinunciare all’indennità di carica. Perfino l’elemento carismatico rappresentato da Beppe Grillo si defila. Tutto è Movimento, e “direttorio” (l’organismo interno guidato dai giovani di migliore resa mediatica). Il messaggio ha un successo travolgente. Perfino troppo, tant’è vero che nei Comuni in cui vince si manifesta la sua nemesi. Roma è la prova del nove per la parabola “grillina”. Nonostante una vittoria praticamente annunciata, il sindaco Virginia Raggi impiega settimane per scegliere la sua squadra, fra giunta e altre posizioni chiave. Le nomine, da sempre croce e delizia dei partiti, diventano un calvario, per il primo cittadino destinatario di una fiducia diretta e trasversale di tanti romani. La giunta non fa in tempo a partire è già perde assessore al bilancio e capo di gabinetto. Si dimettono anche i vertici delle principali partecipate. Tutte queste vicende – le scelte, le nomine, ma soprattutto i problemi interni e le dimissioni – avvengono senza alcuna plausibile spiegazione e comunicazione. Elettori e opinione pubblica restano all’oscuro di tutto. La stampa ricostruisce la storia della crisi che si consuma al Campidoglio e le ricostruzioni descrivono un conflitto durissimo fra varie entità interne al movimento. Gruppi o personalità contrapposte hanno visioni differenti ma i (normali, legittimi) confitti non si manifestano chiaramente: la “dialettica” interna – eufemismo –  non emerge pubblicamente in modo comprensibile. Non si capisce bene su cosa verta lo scontro, quali siano i motivi delle divergenze.

L’assessore al bilancio parla di un deficit di trasparenza. La nuova idea di democrazia propaganda dal Movimento 5 Stelle, davanti al Paese, si mostra per quello che è oggi. Un’illusione nella migliore delle ipotesi. Demagogia nella peggiore. È la riprova che che non ci sono soluzioni facili: i clic, i direttori, gli staff e i meet-up non possano sostituire la fatica e i conflitti della democrazia. Ma la stessa critica si potrebbe fare per tutti i proclami del Movimento. È illusione o auto-illusione, o demagogia, sostenere che di fronte ai problemi della globalizzazione possiamo tornare a “mangiare quel che produciamo e produrre ciò che mangiamo”. Ma anche promettere di combattere la povertà regalando “redditi garantiti” significa illudere, se non spieghi dettagliatamente dove prendi i soldi o fai credere che basti tagliare gli stipendi dei parlamentàri. Illudi i cittadini se sostieni che sia possibile tagliare la spesa pubblica con provvedimenti indolori. E ancora, la moralizzazione del Paese non passa dai cori “o-ne-stà, o-ne-stà”. Chiedere sempre e comunque le dimissioni degli indagati non significa ristabilire un rapporto corretto fra poteri e ordini dello Stato. E la recessione si può analizzare come una sorta di complotto di banche e  finanza o peggio ancora di fantomatiche “massonerie“? Allargando ancora la visuale: il terrorismo, i conflitti e le aggressioni internazionali non si possono contrastare col vecchio pacifismo. I 5 Stelle imputano spesso, ai loro avversari, notevoli nefandezze, in modo spesso esagerato o immeritato. Anche demagogia e qualunquismo però non sono pratiche indolori in un passaggio storico difficile. Anzi, per qualcuno sono fra gli strumenti peggiori che un politico possa utilizzare.

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