Ciò che più colpisce umanamente, nella morte di Sinwar, è l’ultimo gesto: quello in cui il macellaio di Gaza (così chiamato per le violenze sui suoi concittadini e “fratelli”) concentra le residue gocce di energia di una vita, la sua, che sta ormai svanendo. L’ultimo gesto di Sinwar è il lancio del bastone. Non è una preghiera, che potrebbe essere confacente a un “martire”, per quanto fondamentalista, e non è nemmeno una frase dedicata al suo popolo, come si potrebbe pensare per un eroe patriottico, come qualche distorta visione pretende di inquadrarlo.
No, il suo commiato è un gesto d’odio e di guerra, il lancio di un bastone.

“Ferito a morte – scrive uno dei più noti esponenti dell’islam italiano – dopo aver dato ordine ai suoi uomini di lasciarlo lì per mettersi in salvo, in mimetica, seduto in su una poltrona in una delle tante case di Gaza sventrate dalla furia delle bombe israeliane, Yahya Sinwar come ultimo atto scaglia la più primordiale delle armi contro un modernissimo drone. La sua figura si staglia con una forza quasi mitologica, incarnando l’immagine di un Davide contemporaneo contro il Golia tecnologico”.

Da notare l’uso dell’immagine di (re) David che sarebbe impersonato da un leader antisemita come Sinwar. “La sua morte non è solo un evento; è un simbolo potente, un capitolo doloroso nella lunga narrazione di un popolo in lotta per la propria liberazione”. Eppure in questo gesto simbolico non c’è libertà e non c’è religione. Sarà potente ma è un gesto d’odio. Trasmetterà odio e genererà odio, non c’è dubbio, e lutti. C’è da sperare che la vita prevalga.