“Signor giudice sono qui. Sono la vostra coscienza. Di cosa mi accusate?”. La casa resiste da più un secolo, una vecchia dimora, elegante, anche se un po’ decaduta. E’ stretta e alta, saranno tre o quattro piani. Di fronte c’è la moschea di Tesvikye. In basso si vede il palazzo imperiale di Dolmabahce e poi l’imbocco del Bosforo. Istanbul. Ma anche Bisanzio o Costantinopoli. Il quartiere si chiama Nisantasi, la Rocciadel Bersaglio. L’ultima volta che lo hai visto è stato tre anni fa. Ricordi la penombra, la sigaretta sul portacenere, l’odore di caffè, i libri, ovunque. La casa del silenzio, come il titolo di un suo vecchio romanzo. E’ qui che abita Orhan Pamuk, lo scrittore, quello che ora chiamano il rinnegato.
I suoi libri bruciano in piazza. Sui giornali ci sono le sue foto. E’ un tiro a segno. I nazionalisti lo insultano. Lo insultano anche gli islamici. Il quotidiano popolare Gozcu scrive: “Pamuk ci ha venduto un’altra volta”. Hurriyet, il più autorevole foglio turco, dice: “Pamuk è un essere abietto”. Un linciaggio che rimbomba copia su copia e la colpa è sempre la stessa: l’infame ha detto la verità, quella che non si può dire, che non esiste, quella che i figli nascondono ai padri e i vecchi non hanno mai avuto l’orgoglio di raccontare, la storia rimossa, come uno stupro in famiglia, come una donna violentata nel giardino di casa. E’ un giorno di fine estate. Orhan Pamuk parla con un giornalista svizzero del Tages Anzeiger: “Non lo dice nessuno, lo dico io: i turchi hanno ucciso un milione di armeni e trentamila curdi”. Bastano queste parole per finire davanti a un giudice, sotto accusa per aver violato l’articolo 301 comma 1 del codice penale: “Chi insulta i turchi, la Repubblica, l’Assemblea o l’identità nazionale rischia fino a 36 mesi di carcere”. Tre anni in cella per un’intervista e il pubblico ministero che dice: ora lei deve stare zitto, non parlare in pubblico, non rilasciare alcuna dichiarazione. Pamuk è già stato condannato al silenzio.
E’ una storia vecchia. Ha almeno 116 anni. Il primo sterminio di massa è del 1894, nella regione di Sassun, ad Ovest del lago di Van. I morti sono trecentomila, in tre anni. Chi non ce la fa si converte all’Islam, chi può scappa. Poi l’impero ottomano, il grande malato d’Europa, ferma la sua furia. Nel 1909 tocca alla Cilicia, prima ad Adana, poi nel resto della provincia. Questa volta i morti sono trentamila. Ma il 24 aprile 1915 comincia la “grande retata”. Ed è l’atto finale del genocidio armeno, il primo del Novecento. Prima di Hitler e prima di Stalin. All’alba vengono arrestati tutti gli intellettuali armeni di Costantinopoli. Dopo un mese, in tutta la Turchia, saranno più di mille quelli rinchiusi in carcere. Poi tocca agli altri. Comincia la mattanza, uno ad uno vengono bastonati, calpestati, massacrati, fucilati, cancellati. Alla fine del 1916 non c’è quasi più nessuno. E’ inutile fare i conti. Qualcuno dice che i morti sono un milione e mezzo, gli archivi del patriarcato segnano più di due milioni di croci. E’ quello che resta di un regno cristiano sepolto nel 1375, quando fu conquistato dai turchi. Titolo e corona sono rimasti per secoli in eredità a una piccola dinastia sabauda, i Savoia. Forse neppure Pamuk se lo ricorda.
Suo nonno veniva da Manisa, città turco-greca, l’antica Magnesia del Silipo, non troppo lontana da Smirne. Tra la pelle olivastra e i capelli bruni di turchi, greci, armeni, azeri e siriaci, l’epidermide, gli occhi e i capelli chiari non potevano passare inosservati. Suo nonno era albino e per questo si guadagnò il soprannome di “Pamuk”, il signor “Cotone”. Erano i primi decenni del ‘900. C’erano da “europeizzare” elettricità, gas, telegrafo, poste, ferrovie. Pamuk, l’albino, si schierò con i Giovani Turchi, vide cadere Abdulhamit II, l’ultimo sultano ottomano, e brindò al trionfo di Mustafa Kemal, detto Ataturk, il modernizzatore. Queste sono le origini della famiglia di Orhan, alta borghesia, imprenditori che hanno costruito la linea ferroviaria turca. E’ tutto raccontato nel suo primo romanzo, La casa del silenzio. Anche quello che avviene dopo. La delusione del nonno, costretto in esilio in periferia, in rotta con i nuovi padroni, che hanno sostituito la religione di Maometto con quella dello Stato, l’assolutismo della fede con quello della ragione. Il nipote sembra avere lo stesso destino. Ha studiato in una delle migliori scuole americane di Istanbul, il Robert College. Poi è andato per qualche tempo in America. E’ tornato in Turchia e ha acquistato una casa sulla costa asiatica del Bosforo, dove d’estate si rifugia con la moglie e la figlia. Non ha mai smesso di amare Istanbul: “Ormai c’è rumore e cemento ovunque, ma i cambiamenti di superficie non significano nulla. Se la si conosce davvero, ci si rende conto che è la Costantinopoli di sempre. Il suo fascino è intatto”. E’ l’anima che resta divisa a metà, da sempre in bilico tra desiderio e nostalgia. E tutte e due rimproverano a Pamuk di averle tradite. Troppo occidentale per i tradizionalisti islamici, troppo legato alla tradizione per i nazionalisti. Troppo poco turco per entrambi. Qualche anno fa sorrise dei sogni europei di Ankara. “Siamo in lista d’attesa. Anch’io voglio una Turchia con un posto a Bruxelles, ma è un obiettivo difficile da raggiungere. Ci sono troppi ostacoli: i rapporti con la Grecia, la questione curda e poi i parametri economici. Siamo ancora un paese povero”. Uno dei suoi maestri è stato Yashar Kemal, madre curda e padre turco, uno in lista d’attesa a Stoccolma da almeno vent’anni. Ma si può dare un Nobel all’ultimo Omero di un popolo senza terra, disperso e offeso sotto tre bandiere diverse? Pamuk lo ha sostenuto: “E’ un mio amico. Riconosco i diritti dei curdi. Vorrei che i miei concittadini ne parlassero. Noi vogliamo il silenzio, loro rispondono con le bombe. Sono due modi orrendi di stare al mondo”.
Era l’11 settembre. Era il giorno delle due torri. Pamuk ricorda un piccola folla in un caffè di Isntanbul. Il secondo aereo era appena entrato nel ventre del grattacielo. “Ad un certo punto stavo quasi per alzarmi di scatto e gridare: ho passato tre anni della mia vita a Manhattan. Ho vissuto in mezzo a quei palazzi. Ho camminato tra quelle vie senza un soldo in tasca. Ho incontrato delle persone dentro quelle torrri. Ma come in quei sogni in cui ci si sente sempre più soli, non ho potuto fare altro che rimanere in silenzio”. Lui quella tragedia la vede così: “Il problema dell’Occidente non è solo scoprire quale terrorista sta preparando la prossima bomba, in quale tenda, in quale grotta, in quale città, ma anche comprendere la misera, disprezzata, maggioranza che non appartiene al mondo occidentale. Nulla può alimentare il sostegno agli islamici che gettano acido nitrico sulle facce delle donne quanto il fallimento nel comprendere i dannati della terra”.
Il volto di Pamuk nasconde i suoi cinquantatre anni. Una buona parte li ha passati a scappare dai due orizzonti della Turchia: “Alcuni politici hanno cercato di trasformarla in un paese totalmente islamico, altri in un paese totalmente occidentale. Queste spinte hanno prodotto più conflitti che armonia. Credo che questo essere in mezzo al guado sia per il mio popolo una sorta di stile di vita”. Le sue storie sono una via di fuga dall’est e dall’ovest, come se i punti cardinali fossero solo una sporca bugia e le due culture una faida antica senza più ragioni. Storie rubate al Mevlud, il poema che narra la nascita del Profeta, e alle liriche del Mesnevi, alla pittura rinascimentale e alla Vita Nova di Dante, a Borges e a Calvino a Kafka e De Lillo. Storie che vale la pena di raccontare solo perché sono storie, senza stare troppo a chiedersi da quale parte arrivino, se lì dove il sole nasce o lì dove tramonta. I suoi romanzi parlano di libri antichi e miniature, di destini in bilico tra Oriente e Occidente, tradizione e modernità. Parlano di città dove gli spiriti della storia s’incrociano e qualche volta si amalgamano, spesso combattono. E parlando, raccontano il senso di questi tempi e di quelli passati, con rifrazioni di voci e personaggi: mosaici, polifonie, dialoghi con il lettore. Ma soprattutto parlano di uomini in fuga da tutto questo.
Pamuk è come i personaggi delle sue storie. E’ come il Nero, l’uomo che cerca la verità nelle strade di Istanbul in quell’inverno del 1591. Il Nero che è la voce narrante del Il mio nome è rosso, romanzo sul talento e sulla tecnica, su comunità e individualismo. Romanzo sui colori della verità: quattro miniaturisti alle dipendenze di un Sultano, un predicatore che li accusa di tradire i precetti del Corano, di ritrarre gli esseri viventi così “come li vedono” e non “come li vede Allah”, un assassino, una bella donna, due delitti. Un maestro miniaturista che difende i precetti della tradizione e un ambasciatore ottomano a Venezia innamorato della pittura occidentale, a cui il Sultano ha affidato il compito di illustrare un libro con le “nuove tecniche”, quelle della prospettiva. Il doppio è l’ossessione di Pamuk. E’ l’illusione di mettere insieme i due volti della sua terra. E’ l’Est e l’Ovest che lottano per stare insieme o per non annientarsi. Due volti che stentano a riconoscersi. Accade nella Vita nuova. Accade nel Libro nero.  “Credo che ormai sia sterile parlare di Occidente e Oriente. Mi hanno definito un anti-americano. Non lo sono, anche se la trama di La vita nuova può farlo credere. Viviamo all’interno di culture ibride. Mi piace la semplicità con cui si mescolano i cibi di McDonald’s con quelli tipici del mio paese, le folle dei concerti rock e gli strumenti etnici, il matrimonio classico e la pornografia”.
Nelle strade di Kars, la città di Neve, di tanto in tanto arrivano le note di una vecchia canzone italiana. Le parole parlano di una ragazza, Roberta, un amore andato in fumo. La voce è di Peppino di Capri. “Tre anni fa sono stato a un suo concerto, a Istanbul. Credo che le sue note, il senso di solitudine, si adattino bene all’atmosfera di Neve. Roberta così è diventata la colonna sonora della città di Kars”. E’ una piccola città perduta, al confine con il Kurdistan e l’Armenia. L’inverno di questa storia è rigido con una nevicata che non sembra smettere mai, chiude le strade e isola le vecchie case tra i monti. Un gruppo di ragazze si suicida perché la legge turca le obbliga a lasciare il velo se vogliono entrare a scuola. Ka, il protagonista, è un poeta tornato a casa dopo un lungo esilio a Francoforte, dove ha vissuto di sussidi, letture pubbliche, lunghe giornate in biblioteca. E’ tornato per capire perché le ragazze muoiono, per rompere il silenzio di queste morti e per cercare un vecchio amore perduto. C’è un gruppo di attori teatrali che porta nelle cittadine di provincia piece ispirate ad Ataturk mescolate a sketch e danza del ventre, c’è un vecchio portiere della nazionale di calcio che racconta di quando prese dieci gol dall’Inghilterra. Ma Neve  è soprattutto la storia di un colpo di stato guidato da un attore che crede di essere Ataturk, di una città isolata dalla tormenta di neve, di uno spettacolo teatrale che finisce in un bagno di sangue, di una repressione feroce che coinvolge insieme integralisti islamici, nazionalisti curdi, vecchi e ormai stanchi oppositori di sinistra del regime autoritario turco. Un golpe e tante morti in nome di Ataturk, dell’Illuminismo e dell’Europa. E’ la ricostruzione di manoscritti e appunti lasciati dal poeta Ka, ucciso in una strada di Francoforte da estremisti islamici. E’ la storia di un paese che si sente moderno e per guardare ad Ovest ha calpestato le sue tradizioni, ma che al tempo stesso si sente giudicato e allontanato, disprezzato perché arretrato, incomprensibile. Un paese dove essere occidentali significa impedire alle ragazze di usare il velo, ma anche usare la voce dell’esercito per tenere a bada i poveri. Un paese dove gli intellettuali dopo ogni golpe si sentivano delle vittime, ma pensavano: almeno il peggio non è avvenuto. E il peggio era il ritorno all’Islam. Questo paese èla Turchia. Pamuk per troppe volte lo ha messo a nudo. Ed è per questo che va processato. “Signor giudice sono la vostra coscienza”.

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