C i teneva Gioânn al suo compleanno. Non per il tempo che passava, perché quello in realtà lo straniva, con la malinconia rabbiosa di sentirsi ogni volta più vecchio. «La vecchiaia è bella. Peccato che duri poco». Non sarà diverso neppure adesso che sono passati cent`anni dalla sua nascita e le stagioni non le conta più da quella notte di dicembre del 1992 quando tornava a Milano su una Ford Sierra. Era un venerdì e aveva cenato al ristornate «Il sole» di Maleo, paesotto sull`Adda che deve il suo nome forse all`arte dei fabbri, martello, dal latino malleus o da un condottiero romano passato da quelle parti, Tito Maleolo. Quella sera finì male, con il botto, l`auto accartocciata e lui morto. Ci teneva a quell`otto settembre non tanto per il «tutti a casa» dell`armistizio, ma per il lusso di condividere quella data con Carlo Martello, San Bernardino da Siena, Pietro Bembo e soprattutto con messer Ludovico Ariosto. Non c`è da sorprendersi. Il giornalismo di Gianni Brera è chanson de geste. È epica, meraviglie, invenzione, corbelleria, con la vocazione di trasfigurare la realtà in una giostra di magie e avventure e non è allora così difficile immaginare Gigi Riva da Leggiuno nell`armatura di Orlando, Rivera come Brunello e Deltaplano Zenga come Astolfo sulla luna, Puliciclone come Rinaldo, Bonimba come un Ferraù della Bassa o Lodetti in Sacripante e veder volare l`eterno Fausto Coppi sulle Dolomiti come una sorta di Ippogrifo. Brera come Ariosto è qualcosa di più di un cantastorie. È uno che con due colpi di scalpello rende vivo un personaggio e inventa parole, battezza, regalando una lingua all`epopea dello sport. Il sinistro di Riva ha la stessa natura selvaggia e divina del rombo di tuono, le spalle di Rivera sanno di abatino, il mento a punta di Lodetti è da baslètta e l`arte funambolica di Bruno Conti ha il segno arcaico dei pelasgi e si porta dietro un sapere felino e domestico. «È nell`istinto dei gatti giocare lieve di artigli sul gomitolo sottratto alla comare: l`uomo che si diletta di acrobazia sull`erba è un fenomeno solitario, un prodigio di invenzioni minime e tuttavia impensate, esaltanti». Al centro di tutto c`è chiaramente quella sfera di cuoio da addomesticare, una divinità moderna capricciosa che insegue i suoi umori e le sue fortune. Brera la chiamerà Eupalla. Non è solo un gioco di soprannomi. È dare un senso a personaggi e azioni. È da qui che vengono i suoi neologismi. È dare uno spazio e un tempo al racconto. Melina. «Trattenere a lungo la palla passandola o ripassandola da un giocatore all`altro della stessa squadra allo scopo di perder tempo e talvolta con l`intenzione di umiliare l`avversario». Contropiede. «Attacco in direzione inversa. Tratto dalla seconda fase della danza del coro delle tragedie greche». Atipico. «Causio: uno dei meridionali della squadra juventina. Atipico e discontinuo fino al dispetto». Centrocampista. «Il centro­campista ha da avere istintivo o quasi il senso geometrico del gioco. Senza quello è votato al fallimento perché il centrocampo è un mare nel quale facilmente si affoga». E si può andare avanti così con «cursore», che ha nelle gambe la fatica del corriere medievale o l`incornata del goleador che allo stesso tempo si fa toro e torero. San Zenone, dove è nato, era feudo degli Este e questo lo riporta al destino ferrarese di Ariosto. Brera mette la sua fantasia nel giornalismo e lo fa per mestiere e per campare, perché come tutti quelli nati senza rendita non può permettersi il lusso di scrivere senza guadagno. È nel tempo libero che si dedica ai romanzi, quasi tutti, mentiva, scritti in un mese: Il corpo della ragassa (Longanesi 1969); Naso bugiardo (Rizzoli 1977); Il mio vescovo e le animalesse (Bompiani 1983). L`epica torna in Coppi e il diavolo che non è semplicemente un libro sul Campionissimo ma uno specchio dove riconoscersi. È Brera che parla di Coppi (nella foto) e sottotraccia ti racconta le stesse fatiche di Giovanni Brera fu Carlo. «Il padre di Fausto batteva i mercati di Nova e di Tortona. Ci andava con Zagara attaccata al biroccio o in bicicletta. Fu il primo proprietario di bicicletta a Castellania. Poi ne comprò una lo zio calzolaio, marito a una sorella del padre di Fausto. Era un`Aquila, aveva il manubrio basso, quasi simile a quello dei corridori. Fausto imparò a reggersi in bicicletta infilando nel quadro la gamba destra e pedalando come uno sciancato: si aggrappava al manubrio e oscillava in affanno da un pedale all`altro. Bastava gli starnazzasse davanti una gallina per farlo ruzzolare malamente. Aveva le ginocchia zeppe di sbucciature: né andava a piangere in casa, perché sua madre gli avrebbe dato il resto». Per trovare Brera bisogna andare in paese. È quello che fanno Angelo Carotenuto e Malina De Carlo in C`era una volta Gioânn, documentario in onda stasera su Sky Arte (canali 120 e 400). È San Zenone al Po il suo segreto. Non è solo il luogo dove è nato e vissuto l`infanzia. È qualcosa di immaginario che si porta dietro ai confini del mondo, ovunque va, come un talismano, un posto da cui scappare e ritornare, un demone, un destino, un sestante che ti permette di ritrovare la strada quando tutto ti sembra smarrito o straniero. I confini di San Zenone sono molto più grandi di quanto sembri, perché si muovono ogni volta che si allarga l`orizzonte. È qualcosa di più del Pavese e della Padania, da lui immaginata come luogo dell`anima e non della politica. «Il mio vero nome è Giovanni Luigi Brera. Sono nato l`8 settembre 1919 a San Zenone Po, in provincia di Pavia, e cresciuto brado o quasi fra boschi, rive e mollenti. Io sono padano di riva e di golena, di boschi e di sabbioni. E mi sono scoperto figlio legittimo del Po».

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