Ogni volta che scrivevi qualcosa su uno dei suoi eroi, lui chiamava. La prima volta fu disastrosa. Tex aveva raggiunto quota 500. Cinquecento storie che erano un pezzo di cultura italiana. Il giorno dopo arriva una telefonata. «Pronto, sono Sergio Bonelli». «Sì, e io sono Kit Carson». «Ma guardi che sono davvero Bonelli». L’avevi scambiato per un amico abile negli scherzi telefonici. Peggio di Cico. Una figura da mangiare tortillas tutta la vita. Per chi è cresciuto inseguendo Willer non è facile credere all’esistenza reale del suo «fratellastro». Forse è per questo che ti ha invitato a pranzo e poi siete finiti a chiacchierare per ore in via Buonarroti 38, in quella bottega di avventure dove ti sembra di stare in un altro mondo, con lo sguardo di Aquila della Notte che ti guarda le spalle, con Zago e Ken Parker, Dylan Dog e Martin Mystère, Julia e Dampyr, Magico Vento e Napoleone. Di questo universo parallelo Bonelli è il tutore. Questi signori li difende, li coccola, li sgrida quando serve, ci gioca, borbotta. Non è mai facile avere a che fare con gli eroi, soprattutto se devi far quadrare i conti. Qualche volta ti tocca chiamarli nella tua stanza e mandarli in pensione. Come è successo quattro anni fa, con Mister No. Scelta difficile, visto che quel pilota era l’alter ego di Bonelli. È come dire a se stesso che questo non è più il tuo tempo. Non lo riconosci. E forse è giusto farsi da parte. Perché se Tex era il fratello, e Zagor il primo figlio, Mister No è quello che più somigliava al suo creatore, cioè Guido Nolitta, lo pseudonimo che Sergio aveva scelto per non sentirsi in competizione con il padre. Diceva: «Mister No ha lo stesso fascino delle canzoni di Paolo Conte. Stessa musica. Stesse immagini». Ricorda: «Ho cominciato a raccontare Manaus nel 1970. Ero tornato da un lungo viaggio in Amazzonia. Innamorato. In quei posti c’era ancora il paradiso perduto. Terre sconosciute. La foresta era un mistero inespugnabile. Ancora negli anni ’50 c’erano tribù che non avevano mai incontrato l’uomo bianco. Tutto questo è svanito, la terra non nasconde più segreti. Mister No, come me, è un uomo del passato. Negli ultimi tempi era diventato intrattabile, musone. Il mio era nato per l’allegria, per le donne. Quando un personaggio diventa triste è finito». Sergio Bonelli ama i secondi, la spalla. Se proprio deve scegliere è Cico il suo personaggio preferito. «Mio padre mi diceva: tu sei da Paperino. Avevamo gusti diversi. A lui piaceva Mefisto. Si divertiva a farlo parlare con uno stile aulico, dannunziano». Lui, il figlio, non gradiva le atmosfere da cappa e spada, i merletti. Il padre era da feuilletton, lui ha sposato il romanzo d’avventura, lo ha messo su carta e china, raccontando il Novecento e l’incertezza del nuovo secolo. Ci trovi la metamorfosi di questa era, le tappe, i mutamenti sociali, l’antropologia. Lo vedi in Tex, che ha interpretato paure e sogni dei lettori. È il Dylan Dog dell’orrore politicamente corretto e il Dampyr crudo, dove il confine tra buoni e cattivi è sempre labile. Sono le lezioni al femminile di Julia, con quel faccino alla Audrey Hepburn, e l’ombra del zitellaggio che la tormenta. È il fascino scientifico di Martin Mystère e la malinconia postmoderna di Nathan Never. È il libertarismo di Ken Parker. Sergio Bonelli ora sta in mezzo a loro, da qualche parte nel metamondo. Staranno lì a parlare di donne, mangiare bistecche alte due dita, bere birra o vino o chinotto, a raccontarsi viaggi e avventure, bestemmiando alla barzellette di Groucho. Sono lì in quel tempo eterno dove alla fine dell’ultima pagina c’è scritto sempre continua. Arrivederci alla prossima puntata. Ciao Sergio.