Le storie di Mary Robison vanno bene per i primi giorni di pioggia, quando l’autunno è già maturo.
È come sedersi al tavolino di un bar, dopo le cinque, di sera. Fuori è buio. Sei solo, e leggi distratto un quotidiano. Qualche metro più in là ci sono due ragazze, ventotto, trent’anni, che si raccontano qualcosa. Forse sono sorelle, forse amiche. Non fa differenza. Non sei lì per ascoltare, ma è inevitabile, ti ritrovi a cogliere una mezza frase. Parlano magari di una madre che non vuole crescere o di un esame all’università, di una tinta di capelli sbagliata, di un tipo con cui non si sa bene se vale la pena sposarsi oppure no. Cose banali, che di solito scivolano via. E invece ti ci ritrovi dentro, cominci a riannodare il filo del discorso, cerchi di capire chi sono i personaggi, che passato hanno, cosa vogliono. Finisci per immaginarteli, scopri che vestono in un certo modo, e condiscono l’insalata con poco olio e quando sono preoccupati o cercano una soluzione si passano la mano sul collo, accarezzandosi con un gesto deciso i capelli. Quello che stai cercando di fare, in pratica, è rubare un pezzetto di vita, un frammento, di queste persone. Le informazioni che, chiacchierando tra loro, ti trasmettono sono solo parziali. Non sai quasi nulla del resto, ma quello che sai è già abbastanza. È una vita simile alla tua, vita di questi tempi, di questo autunno che piove, di un calendario che cambia il numero degli anni, ma ha gli stessi mesi, gli stessi giorni, perfino gli stessi santi. Solo che tutto questo lo vedi da fuori, al di là dell’acquario, e ti appare per quello che è, scarno, essenziale, senza illusioni.
 Come in un quadro di Hopper, lo guardi e ti chiedi chi, cosa aspetta la signorina seduta al bar con una tazza davanti, il volto ovale, le labbra rosse, e in testa un cappello anni ’20 che non ha avuto la voglia o il tempo di togliersi. Ma poi sta davvero aspettando qualcuno? Qualcosa? Mary Robison ora ha quasi 60 anni. Ha un viso magro, segnato, occhi da fattucchiera, da sciamana, i capelli più bianchi che neri. Ha vagato qui e là negli Stati Uniti. Ha studiato con John Barth, l’ironico e fantasioso autore di La fine della strada e L’opera galleggiante, alla Johns Hopkins University. Ha fatto la sceneggiatrice a Hollywood. Ha insegnato in Ohio, Texas, Mississippi. Ha scritto tre romanzi e quattro raccolte di racconti. Ha condiviso con Raymond Carver lo “stesso problema”: l’editor Gordon Lish. “Era quel genere di persona autoritaria e prepotente, tanto intelligente che non potevi mollarlo, ma proprio incontrollabile. Andò a finire che io e Carver licenziammo Gordon lo stesso giorno”.
 Ma Gordon Lish non è un editor qualsiasi. È l’uomo a cui Carver deve una buona fetta della sua fortuna. È il cinico, spietato, geniale personaggio che ha disossato i racconti di Raymond. Forse li ha resi immortali. Carver è Faust, Lish il diavolo. Mary Robison con Carver condivide la genesi del minimalismo. Solo che di Carver si sa tutto, di Mary qui in Italia quasi nulla. Ora minimum fax ha pubblicato la sua ultima raccolta di racconti. Titolo: Dimmi. In America era uscita due anni fa. Un anno prima, dopo un decennio di buio creativo, la scrittrice aveva pubblicato Why Did I Ever. Era il romanzo della sua rinascita. Nei trenta racconti di Dimmi non cercate paranoie, emarginazione, sangue, lacrime, paure. Non cercate la vita bastarda di Ellroy, le psicopatologie di Palahniuk, le contaminazioni mitologiche di Eugenides, i dubbi sull’identità, e neppure l’intellighentia ebraica di Philip Roth. Non c’è tempo, non c’è spazio. È solo un pezzo, sbattuto in faccia, di normalità. L’umanità che frequenta i racconti di Mary Robison aspetta solo che il tempo si fermi. “Volevo che la pioggia finisse e che l’estate ricominciasse daccapo: che ogni cosa si fermasse e basta, fino a quando non fossi riuscita a raggiungerla”.
I personaggi del mondo di Dimmi vivono inchiodati a terra, senza scelte, senza arbitrio, tirano ad andare avanti rassegnati allo stesso orizzonte. Sono ingabbiati nel presente perché temono il mutamento. È il loro nemico, la loro angoscia, e quando ci pensano frugano nella borsa o in un cassetto alla ricerca di un anti-depressivo. Nei racconti di Carver la vita quotidiana è in bilico su uno strapiombo, c’è un particolare che scarta di lato e spiazza l’esistenza. La normalità nasconde sempre qualcosa, fosse anche solo un salto nel buio. Non c’è nulla di tutto questo in Mary Robison. Non ci sono sorprese. La quotidianità è quello che è. Punto e basta.

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