City on fire: l’epopea punk di New York
Era la notte del 13 luglio 1977 e New York sprofondò nell’oscurità. Black Out. Due lunghi giorni senza luce, come una follia, come una coperta di paura o come un carnevale. A Brooklyn, Harlem e nelle strade del South Bronx non c’era più legge. Rapine, saccheggi, automobili che cambiavano padrone e poi 3776 arresti, 1037 incendi e cene a lume di candela. Nel Greenwich Village invece la notte fu bianca, come l’esplosione di un sogno, si cantò e ballò senza sosta, sotto incantesimo. Qualcuno pensò che quel black out fosse la fine, l’apocalisse, altri ci videro l’inizio, una ventata di anarchia a disarticolare il mondo. C’è chi pensò che la Grande Mela semplicemente fosse in bolletta. Fallita. Ma il buio mischia le carte. È una scommessa, un confine, un’avventura, un modo per perdersi e ritrovarsi. Il buio sospende le cose, riannoda i fili, recupera il tempo perduto. Il buio scova nuove energie che si muovono dalla periferia e conquistano il centro. Ecco, è intorno a questo cratere temporale di materia oscura che converge City on fire. Benvenuti a New York, anno di grazia 1977. È l’America di Jimmy Carter, il presidente che vendeva noccioline, Mario Cuomo si prepara a fare il sindaco, e il primo Guerre Stellari arriva in sala. C’è un serial killer che va in giro ad ammazzare ragazze bionde. Si chiama David Berkowitz, detto «Sam». La chiameranno così: l’estate di Sam. È prima dell’Aids e di Reagan e Manhattan si trova in una bolla di decadenza in stile Weimar: droghe, alcol, sesso sfacciato e poliformo. Ma in questa città in bancarotta artisti e musicisti si ritrovano a vivere sregolati nell’epicentro del collasso. La musica esplode, come un rumore bianco. È punk. È No Wave. È hip hop. È uno strano nichilismo che in realtà sta fuggendo dalla morte. Cerchi di sopravvivere anche se galleggi nella disillusione. Come dice Lydia Lunch, all’epoca nei Teenage jesus and the jerks: «Le scorie di Taxi Driver, Times Square, il figlio di Sam, il black out del ’77, la corruzione politica dilagante, la povertà crescente, il fallimento dell’Estate dell’Amore, la fregatura di Charles Manson, e un bisogno disperato di ribellione violenta contro sitcom e disco music».
Il circo di voci e personaggi di City on fire si muove su questo palcoscenico. È da due anni che se ne parla, quando ancora in bozze portava l’etichetta di «nuovo grande romanzo americano». C’è un’agente letterario che lancia un’asta, un editore, Knopf, che acquista i diritti mettendo sul piatto due milioni di dollari e un nome su cui puntare tutto: Garth Risk Hallberg. È lui l’autore, uno che va per i trentacinque anni e collabora con un po’ di giornali. Non è esattamente un esordiente. Ha pubblicato uno strambo libro illustrato, A Field Guide to the North American Family. È cresciuto ai margini di Greenville, una cittadina della Carolina del Nord. Si sente decisamente un outsiders, un provinciale, sempre alla ricerca di un posto fuori dal mondo. «Narnia, la Terra di Mezzo e New York sono stati i miei universi di fantasia». Nelle istruzioni per diventare uno scrittore da due milioni di dollari non c’è scritto di leggere sei volte Harry Potter e l’ordine della fenice, ma lui lo ha fatto. Magari serve davvero. Nella sua play list trovi pezzi dei Dirty Mind, Fugazi, Darkness On The Edge of Town, Transformer, The Clash, Talking Heads, ma su tutto questo c’è, come una divinità dell’Olimpo, Patti Smith. «Se crediamo nella notte ci fidiamo/perché stanotte ci sono due amanti».
Adesso che il romanzo c’è, e a gennaio arriva anche per Mondadori l’edizione italiana, City on fire non è più soltanto un caso da due milioni di dollari. Se vi dicono che ha a che fare con Le Correzioni di Franzen, diffidate. Piuttosto c’è qualcosa di Michael Chabon. Se vi nominano Dickens è solo per quell’odore di sporco e di miseria che ogni tanto sale da appartamenti troppo affollati, ma non è fame. È puzza d’artista. Magari c’è qualcosa del Falò delle vanità di Tom Wolfe, non di certo Underwold di Don De Lillo e neppure Bolano. No, non è postmoderno. Avete invece presente quelle lunghe scene dove sembra non accadere nulla ma se le salti perdi tutto? E poi tagli e accelerazioni che all’improvviso ti tengono incollato alla storia e ti lasciano sveglio tutta la notte. Ecco allora cosa è davvero City on fire. È l’inizio di un nuovo genere HBO, sì esattamente come le grandi fiction americane, con la stessa forza creativa e narrativa e in più una lingua e una scrittura da grande romanzo americano. Si comincia. «A New York puoi farti consegnare a domicilio qualsiasi cosa». È l’ultimo giorno dell’anno. A Central Park si cammina nella neve. Uno sparo, una ragazza che cade, qualcuno ha colpito proprio lei, non è morta ma è in coma. Quello che state leggendo potrebbe essere un giallo e invece no. È un tuffo. È vedere cosa accade quando il potere si oscura. È sfogliare le 944 pagine, sentirne l’odore, seguire le voci che vanno su e giù lungo la mappa della città, capire infine dove tutto questo rumore si spegne. Queste voci sono storie e non la smettono mai di pensare, raccontarsi, respirare, elucubrare, citando in ogni istante teorie, cospirazioni, citazioni di Hegel, Nietzsche, Gramsci, e poi testi di canzoni, autori e libri più o meno dimenticati, e tutte finiscono per schiantarsi sulle rocce del proprio destino. Sono frammenti di umanità e insieme tracciano il profilo di New York. E Hallberg sostiene: «Tutti i personaggi sono me».
Hallberg sicuramente è Samanta Cicciaro, il corpo, figlia di italiani, anarchica, punk, che frequenta il gruppo di un tal Nicky Chaos. Non tutto però è così lineare. Samanta è punk ma è anche l’amante di un finanziere di Wall Street, sposato con una ricca ereditiera. E qui entra in ballo la famiglia Hamilton-Sweeney, una di quelle casate che ha fatto la storia di New York. L’ultimo figlio chiaramente è un pittore radical, gay e alla ricerca di una Bohemian Rhapsody. «Is this the real life? Is this just fantasy?». Il suo compagno è uno scrittore arrivato a New York per scrivere il Grande Romanzo Americano. I personaggi di City on fire subiscono lo stesso dilemma di Tristram Shandy: «Nella testa del romanziere, il libro continuava a crescere in lunghezza e complessità, quasi si fosse assunto l’onere di soppiantare la vita reale». Ma come può un romanzo essere reale come la vita? La risposta è nel prologo, che si chiude con un appello ai sognatori di New York. Chi di noi, se questo significa lasciare la follia, il mistero e la bellezza di tutte le milioni di possibili New York sparse nel tempo, è pronto anche adesso a rinunciare alla speranza?. Chi di noi sogna un ancora un mondo diverso? Non si fugge da New York anche se sei nato per correre, anche se resti al buio o soprattutto se stai al buio, anche se un 11 settembre ti spezza la facoltà di coniugare i tempi al futuro, perché New York è per illusionisti e prestigiatori. È per chi disegna fuochi d’artificio e se la perdi ti viene nostalgia. Ma per sognarla devi spegnerne le luci. Come canta Bruce Springsteen. «La città ti spezza la schiena. Noi siamo nati per correre. Fammi entrare piccola, voglio essere tuo amico. Voglio proteggere i tuoi sogni e le tue visioni».