Orlando Furioso nella prigione di Azkaban
Sei mai stato ad Azkaban? È una torre su uno scoglio nel Mare del Nord. È una prigione. Quelle ombre che vedi in volo come macchie di anime maledette sono i Dissennatori. Li senti stridere e l’orizzonte è un mantello grigio. Non c’è speranza, ma un alito di gelo. Non sai più chi sei, perché loro ti stanno mangiando i ricordi. Non tutti, quelli belli. Ti restano i peggiori, le ore buie della tua vita, cariche di angoscia e si ripetono l’una dopo l’altra, come in un cerchio, fino a prosciugarti. Non è la morte che davvero spaventa, ma questo sfinirti senza fine. Il vuoto, la memoria maciullata, smarrire il senno. Capisci che roba è? È perdere peso, profondità, sostanza, dimensione. È essere soltanto qui e adesso.
Ed è come non essere. È rendersi conto che tutti i tuoi affanni, la tua “inchiesta”, non è altro che una patetica e beffarda illusione. Qui è rinchiuso Sirius Black, un rinnegato con il cuore da cane randagio. Non è nell’ordine delle cose fuggire da Azkaban. È una malattia che ti perseguita il resto della vita. Sirius ci riesce, con la complicità di Harry Potter a cavallo di Fierobecco, un ippogrifo.
Te lo ritrovi qui questo animale leggendario, con la testa di grifone, come un’aquila trasfigurata, con le ali grandi e pesanti e il corpo di un cavallo. È un frammento dell’Orlando Furioso che si accasa dopo mezzo millennio nella saga di Hogwarts. Non ci arriva per contaminazione diretta. J. K. Rowling non ha mai citato Ludovico Ariosto tra i suoi padri, ma quando studiava all’università di Exeter ha preso in biblioteca il terzo volume della raccolta di leggende antiche e medievali di Thomas Bulfinch. Qui l’ippogrifo c’è e si narra di Astolfo, di Orlando, di Ruggero e Bradamante. Il destriero non è però solo una citazione. È qualcosa di più profondo che, passando da Ariosto, segna i sentieri dell’epica: la sfida al potere del nulla, al nichilismo, ai dissennatori, alla morte nera, al non senso. È la ribellione a Colui-che-non-si può-nominare, all’Oscuro signore, alla strega di Narnia, al lato oscuro della forza o all’arrivo degli Estranei, a Gmork che sputa in faccia ad Atreju l’elogio della menzogna. Eppure l’etica dell’Orlando Furioso è più sottile, non ci sono buoni e cattivi così netti e delineati, non ci sono prediche e sermoni, ogni personaggio insegue le proprie ossessioni, quasi sempre vane, e si ritrova a fare i conti con l’inatteso, con i rovesci e l’opportunità della Fortuna, qualcosa che sfugge perfino agli algoritmi degli dèi e ti lascia sgomento davanti all’improvvisazione del caso. Ariosto divaga nella sua leggerezza e canta le donne, i cavalieri, le armi, gli amori, le cortesie, le audaci imprese. Non fa altro che tracciare le linee di fuga dei suoi personaggi, che per lo più si inseguono e si picchiano come in un western spaghetti. Solo che in tutto questo c’è l’invisibile, c’è il virtuale e c’è la magia. Non come qualcosa di eccezionale o metafisico, ma di quotidiano. Le storie dell’Orlando Furioso sono immerse in uno scenario che rivela materia e antimateria. Ariosto è un babbano che vede chiaramente quello che tramano i maghi. E poi c’è Astolfo che va sulla luna. Qui troviamo tutto quello che i dissennatori ci hanno rubato. È come la stanza delle cose perdute di Hogworts, dove ci si arriva seguendo la mappa del malandrino.
Astolfo in sella all’ippogrifo arriva in paradiso. È lì che viene a sapere della pazzia di Orlando. La notizia arriva da un vecchio con le stimmate da saggio. È San Giovanni, l’evangelista, quello dell’Apocalisse. È lui che lo avverte della vittoria dei mori, da scongiurare con un’impresa ultraterrena: se il cugino, primo paladino di Carlo Magno, non rinsavisce per i Franchi si mette male. Bisogna riportare in campo Orlando e tocca ad Astolfo trovare la cura. È insomma una questione geopolitica. Il senno perduto è sulla luna e per arrivarci serve il carro infuocato del profeta Elia. La luna non è una terra desolata. Astolfo, esploratore e cartografo, vede una valle dove viene raccolto ciò che si perde per sciagura, per colpa del tempo o della sorte. «Ciò che si perde qui, là si radura». Non solo il potere o la ricchezza, ma le preghiere e le promesse dei peccatori, le lacrime degli amanti, il tempo sprecato, l’ozio degli ignoranti, i desideri vani e i progetti irrealizzati. Vede gli eroi dimenticati, le adulazioni e i favori, i complotti e le menzogne e infine, eccole, le ampolle di chi ha perduto il senno, in tanti modi e molte varietà. «Altri in amar lo perde, altri in onori, altri in cercar, scorrendo il mar, ricchezze; altri ne le speranze de’ signori, altri dietro alle magiche sciocchezze, altri in gemme, altri in opre di pittori, ed altri in altro che più d’altro aprezze. Di sofisti e d’astrologhi raccolto, e di poeti ancor ve n’era molto». C’è anche quello di Orlando, perso per amore, o forse sarebbe meglio dire per orgoglio o per puntiglio. Angelica non è mai stata una santa. Ha promesso la sua carne e il suo cuore a molti cavalieri. Basta chiedere a Sacripante, a Ferraù, a Rinaldo, a tutti quelli che avrebbero potuto aiutare suo padre Galifrone, il re del Catai, nella guerra contro i tartari. La principessa viene da Oriente e conosce le arti della magia e della seduzione. Quello che Orlando non accetta è che Angelica alla fine si innamori di Medoro, non un paladino, non un eroe, ma un semplice fante.
Ho scoperto davvero l’Orlando Furioso passando da Italo Calvino. È banale, ma forse non poteva che essere così. Il castello dei destini incrociati, che si accompagna alla locanda, ti porta in certe atmosfere da autunno piovoso, quando raccontare storie è il sollievo per la sete di mondi, vita, immaginazione. L’intreccio è scandito dai tarocchi viscontei che si ispirano ai personaggi di Ariosto. La combinazione e la successione delle carte creano narrazioni che tendono all’infinito.
Questo è il vero segreto dell’Orlando Furioso, la sua potenza geometrica. È un generatore magico di storie, una sorgente che da 500 anni penetra in ogni rivolo dell’immaginario e si rinnova, prende forme sempre fresche, attuali, adattandosi a tempi e luoghi. È un classico con una dirompente vocazione pop. Non è importante neppure leggerlo, perché lo ritrovi ovunque. Ho qui davanti l’illustrazione di Gustav Dorè. Questa volta è Ruggiero che cavalca l’ippogrifo. Arriva sull’isola di Ebuda, l’isola del pianto, e vede una ragazza nuda, con le braccia in alto, incatenata a uno scoglio, come una schiava destinata al sacrificio. È Angelica. Sotto di lei, pronta a divorarla, c’è un’orca con un ventre grasso e molliccio. Ruggiero, in questo caso una sorta di antenato di Han Solo, la salva abbagliando il mostro che resta a galleggiare in mare come un’enorme medusa (o una busta di plastica). Il riferimento a uno degli eroi di Star Wars non è casuale. La scena ricorda la principessa Leia prigioniera di Jabba the Hutt. Angelica è solo più nuda.
L’Orlando sembra contenere tutto. Ruba, come d’altra parte fa la Rowling. Ruggiero, Angelica e l’orca sono un prestito dalle Metamorfosi di Ovidio. Perseo, dopo aver ucciso Medusa, si ritrova a salvare Andromeda in Etiopia, minacciata da una sorta di drago marino o qualcosa che assomiglia a un’enorme biscia. Non solo. Lascia nell’ombra l’Orlando originale, quello innamorato, quello di Boiardo. Le avventure raccontate da Ariosto sono un sequel dichiarato di un altro poema di grande successo. Non è il primo spin-off che si incontra nella storia dell’epica. Omero due, chiunque sia, riprende un filone narrativo di Omero uno. L’Odissea è una rivoluzione letteraria rispetto all’Iliade. Virgilio naturalmente apre una delle tante tracce sotterranee lasciare lì dal vecchio cantore cieco. Ariosto non solo riprende da dove Boiardo ha finito, ma si mette a scavare cunicoli narrativi che sono una lezione per tutti gli sceneggiatori di serie tv. Il tempo della narrazione non è lineare. È un labirinto di storie e sottostorie che si intrecciano.
È come una giostra di palcoscenici che ruotano, dove l’azione si svolge contemporaneamente. I filoni principali sono tre: la guerra cavalleresca tra cristiani e saraceni, l’ossessione di Orlando per Angelica e conseguente furiosa pazzia e l’amore tra Ruggiero e Bradamante che è all’origine della casata ferrarese degli Este (un omaggio allo sponsor). Ogni linea principale ha poi al suo interno tante piccole deviazioni narrative. Il canto, che ha il ritmo di una puntata, finisce lasciando l’azione in sospeso, quando l’emozione è massima e stai lì incantato con l’ansia di sapere cosa succede. È lì che Ariosto spegne la telecamera e ti fa bestemmiare.
La forza dell’Orlando Furioso è che non invecchia. Non smette mai di essere contemporaneo. La prima edizione è del 1516 ed è già un successo nelle corti, anche se a Ferrara lo stesso duca Alfonso d’Este non lo considera certo un’opera colta e alta, ma un intrattenimento leggero, divertente, buono per far divagare il pubblico. Una leggenda sostiene che il cardinale Ippolito, a cui il poema è dedicato, avesse commentato: «Messer Lodovico, dove mai avete trovato tante corbellerie?». Non è vero, ma racconta bene il clima.
Di certo piace parecchio a Isabella d’Este. Ariosto ci lavora tutta la vita. Corregge, ridisegna, taglia, cuce, aggiunge. L’ultima edizione è del 1532, un anno prima della morte. In mezzo c’è un successo che viaggia di corte in corte, con una lunga serie di edizioni pirata. Poi dalla corte scende nelle piazze, nelle fiere, incantando il popolo, ma in una forma più immediata, veloce. La forza di penetrazione è impressionante. I pupi siciliani rielaborano le storie di Orlando e Rinaldo e contaminano altre arti. Sergio Leone confessò che per i suoi western si ispirò alle sceneggiature dei pupari: botte, fughe e duelli. Racconto e azione. Ecco il duello di Mandricardo e Rodomonte. Se le stanno dando di santa ragione: «Fra mille colpi il Tartaro una volta / Colse a duo mani in fronte il Re d’Algiere / Che gli fece veder girare in volta / Quante mai furon fiacole e lumiere». È la descrizione di uno sganassone a due mani e sull’inebetito Rodomonte appaiono stelle e punti luminosi, come accade ancora nei fumetti. Quanti personaggi minori sono così popolari da tramutarsi in aggettivi? Gradasso e Zerbino sono in fondo solo due caratteristi nella grande epopea cavalleresca, ma ormai indicano un carattere e un modo di fare.
L’Orlando Furioso è la sceneggiatura perfetta di un videogame. È un gioco di ruolo, un’avventura e un picchiaduro. Tutti i personaggi, maschili e femminili, hanno un carattere definito. Tutti inseguono qualcosa e hanno una missione da compiere. Poi c’è la magia. Animali, oggetti, incantesimi, pozioni, malefici, mostri, negromanti e streghe. Senza magia sei fottuto. Senza magia non saprai mai distinguere il reale dalle illusioni. Lo scudo che acceca, la lancia che disarciona, il corno che disperde i nemici, cinque libri di incantesimi e storia delle arti magiche, due fontane (una che fa innamorare e l’altra detestare), la coppa della discordia e l’ippogrifo, certo. E poi ci sono i cavalli magici. Baiardo, il destriero di Rinaldo, che è l’idea platonica del cavallo, la perfezione. Rabicano, l’ombra di Astolfo: «Così leggero che non lascia orma né sulla sabbia né sulla neve e quando cavalca su di un prato non pezza neanche un filo d’erba. È un cavallo senza peso nato dall’incontro tra una fiamma e un colpo di vento».
Angelica, Bradamante e Ruggiero hanno un’attitudine alla magia, sanno come maneggiarla. Astolfo, vero protagonista dell’epopea di Ariosto, è l’inetto che poco alla volta scopre il suo talento. Non è uno bravo con le armi, ma ha una predisposizione a vedere l’invisibile. Ha quella inconsapevolezza leggera che lo rende coraggioso. L’incoscienza naturale di chi cammina sul filo della magia. È da qui che nascono le sue imprese impossibili. Tutti e quattro sono i progenitori di quello che sarà il mondo di Harry Potter. È il dono di chi non nasce babbano. Poi ci sono i professionisti. Due negromanti e quattro streghe che giocano a dadi con la trama, cercando di favorire o deviare la profezia, quella sull’amore di Ruggiero e Bradamante. Melissa e Merlino (spirito senza più corpo) si muovono affinché il destino si compia.
Atlante si ingegna per scongiurarlo. Atlante il mago, Atlante l’infedele, che si muove al confine del poema, dentro e fuori, che ogni volta che appare cambia ritmo e scene, meraviglioso creatore di illusioni. Atlante che ha cresciuto Ruggiero e conosce il prezzo della profezia: l’amore si paga con una vita breve. Atlante che imprigiona Ruggiero nel castello incantato per proteggerlo o lo spedisce nelle braccia di Alcina, la bellissima seduttrice sabbatica, sorella di Morgana e Logistilla, una sorta di Circe che muta gli uomini in piante o animale, che forse troverà il modo di far dimenticare a Ruggiero la amazzone cristiana. Atlante che oggi ci parla di quello che siamo. Come salvare Ruggiero dalla morte? Magari interrompendo questo stupido gioco, togliendo dalla mappa donne e cavalieri. Atlante ci prova due volte, costruendo pixel su pixel due castelli incantati. La prima volta sui Pirenei, dove attira Ruggiero e gli altri cavalieri con la promessa di giovani donne vestali del piacere. Non c’è nulla di più antico del sesso per affollare il punto di una rete. Sarà Bradamante, gelosa, a farlo sparire.
Poi ci riprova con un palazzo delle meraviglie, dove ogni cavaliere insegue le proprie ossessioni e viene inseguito dalle proprie paure. Tutti si affannano nella speranza di afferrare ciò che desiderano: la persona amata, il nemico da uccidere, l’oggetto perduto. Quello che trovano sono solo immagini vuote, senza corpo, virtuali. Questa volta sarà Angelica a liberarli. Il mondo di Atlante è una finzione. Non è reale. Bradamante e Angelica se ne accorgono grazie a un anello magico. L’anello della consapevolezza. Un anello che ti rende invisibile, che ti sconnette, che ti porta fuori dal gioco e ti fa riconoscere le illusioni.
«Sotto la soglia era uno spirto chiuso, che facea questi inganni e queste frodi: e levata la pietra ov’è sepolto, per lui sarà il palazzo in fumo sciolto».