Voti e affari, politici e sbirri: ma la ‘ndrangheta non è un film
La ’ndrangheta come non l’ha mai raccontata nessuno (anche se a me piace da morire Il Sud è niente) è pronta a sbarcare negli Usa. Black souls sarà la trasposizione americana del bellissimo Anime nere di Francesco Munzi tratto dall’omonimo romanzo di Gioacchino Criaco. Il 10 aprile inizierà la prima settimana con opening a New York, poi in tutti gli Usa distribuito da Vitagraph. Ma la ‘ndrangheta non è fiction, anche se le trame che si dipanano dalla cronaca fanno invidia a Hollywood. I boss della ‘ndrangheta hanno rapporti con i politici, con i poliziotti ma anche con i preti. Si occupano di appalti, procacciano voti, manipolano le inchieste e le sentenze.
Partiamo da Amedeo Matacena, l’ex deputato azzurro condannato per concorso esterno in associazione mafiosa e latitante a Dubai.L’armatore si è beccato un’altra condanna in Appello per corruzione in atti giudiziari nel processo che vedeva alla sbarra anche l’ex presidente del Tar Luigi Passanisi, che avrebbe accettato 200mila euro per favorire l’ex parlamentare in alcuni ricorsi contro la Amadeus Spa, al centro del risiko societario scoperchiato dalla Dia e dalla procura di Reggio Calabria. Matacena non nega la mazzetta ma sostiene che le cose stiano in maniera diversa: «Non sono un corruttore: mi sono state fatte richieste di denaro per addomesticare la sentenza incriminata. È cosa ben diversa – ha commentato da Dubai – ormai mi condannano anche quando sono chiaramente vittima di un’azione subita e non un attore». In effetti, come ha sottolineato lo stesso Matacena, qualcosa nella ricostruzione dei fatti non tornava neanche al pg Alberto Cianfarini, che ha chiesto l’assoluzione dell’ex parlamentare ipotizzando una truffa ai suoi danni. «Non è escluso che il pg Cianfarini ricorra in Cassazione contro la sentenza», conclude Matacena, che da Dubai aspetta l’esito del processo alla moglie Chiara Rizzo, accusata di intestazione fittizia di beni (per far sfuggire la ragnatela societaria alle grinfie dello Stato dopo la condanna in Cassazione) e all’ex ministro Claudio Scajola, alla sbarra con la Rizzo per «procurata inosservanza della pena», cioè per averne favorito la latitanza grazie a una presunta spectre affaristico-massonica-ndranghetistica con collegamenti anche a Montecarlo e in Libano.
Più che la politica sono gli appalti il core business della ‘ndrangheta, almeno a guardare un altro processo che a breve si aprirà a Milano. È un filone dell’inchiesta Infinito che riguarda i servizi infermieristici al carcere di Opera che vedrà sul banco degli imputati l’ex direttore dell’Asl di PaviaCarlo Antonio Chiriaco, gia condannato in Appello per Infinito a 12 anni per i suoi rapporti con il boss Cosimo Barranca, considerato il capo della locale di Milano. L’inchiesta è nata dopo il suicidio dell’allora dirigente del settore appalti dell’ospedale San Paolo Pasquale Libri il 19 luglio 2010, qualche giorno dopo la maxi retata di ‘ndranghetisti tra Milano e Reggio Calabria. Dal suicidio di Libri, sposato con la nipote del boss di ‘ndrangheta Rocco Musolino, sono partiti altri filoni d’inchiesta sulla sanità lombarda e su presunti appalti truccati per l’Expo.
Tutto ruota intorno a due personaggi, l’ex direttore amministrativo del San Paolo Pierluigi Sbardolini e Giuseppe Catarisano, che assieme a Chiriaco avrebbero manipolato l’appalto per il carcere milanese facendo nominare come componente della commissione aggiudicatrice tal Sergio Edo, che per gli inquirenti sarebbe «un professionista in contatto con Chiriaco». L’accordo sarebbe stato fatto per favorire la ‘ndrangheta, visti i rapporti tra Chiriaco e Barranca, con in mezzo alcuni politici come l’ex sottosegretario regionale Angelo Giammario, che alle Regionali 2010 avrebbe ottenuto un cospicuo pacchetto di voti dalle cosche dagli imputati per far pressing sul politico e favorire la nomina dello stesso Sbardolini ai vertici della struttura ospedaliera. Un’ipotesi tutta da verificare, atteso che l’ex consigliere Giammario compare sì nell’atto di conclusione dell’inchiesta ma non è indagato.
Prima di parlare di pacchetti di voti bisogna essere cauti. Lo dimostra il processo in corso all’ex assessore regionale Domenico Zambetti, che deve difendersi dall’accusa di essere stato eletto con i voti delle cosche calabresi. Peccato che chi lo avrebbe aiutato sia – per sua stessa ammissione – una sorta di millantatore. Dalle indagini è emerso che Zambetti ha versato al sedicente boss Eugenio Costantino e al suo sodale Pino D’Agostino 40mila euro in cambio dei voti che i due gli avrebbero fatto avere tramite le famiglie calabresi. Millanterie, secondo i legali del politico. E a pensarci bene, per quello che si sa, gli ‘ndranghetisti i politici se li coltivano, non li terrorizzano. Fatto sta che alla fine le voci su Zambetti sarebbero arrivate anche all’allora governatore della Lombardia Roberto Formigoni. Al processo l’attuale senatore Ncd ha confermato che dopo l’affidamento a Zambetti delle deleghe da assessore ricevette «segnalazioni» su una «campagna elettorale» del politico «particolarmente dispendiosa, con parecchie cene elettorali». «Voci» che secondo l’interpretazione di Formigoni, provenivano da «concorrenti elettorali» dell’imputato. Insomma, malignità messe in giro ad arte per ostacolare la nomina di Zambetti. «Lui mi garantì più volte di essere innocente ed estraneo a ogni inchiesta – ha aggiunto Formigoni al processo – nessuno mi aveva mai parlato di suoi legami con luoghi o persone sospette».
Ma non ci sono solo i politici a trescare con i boss. Purtroppo ci sono anche poliziotti, carabinieri e preti, come sta cercando di capire la Dda di Catanzaro che ha aperto una indagine legata alle prime ammissioni del killer pentito Raffaele Moscato, sicario legato al clan dei «Piscopisani» che ha confessato di aver preso parte nel 2011 all’omicidio del boss rivale di Stefanaconi, Fortunato Patania. Moscato avrebbe rivelato agli inquirenti di aver saputo da alcuni esponenti delle forze dell’ordine di essere finito nel mirino dei pm per l’omicidio Patania insieme a due complici, Francesco Scrugli e Davide Fortuna (uccisi a distanza di poche settimane a metà 2012). Anche una nipote di Patania si sarebbe pentita, e anche lei – come ha scritto Guido Ruotolo sulla Stampa qualche giorno fa – avrebbe sparato a zero contro il parroco di Stefanaconi e il comandante della stazione dei carabinieri di Sant’Onofrio, entrtambi indagati dalla procura di Catanzaro per le infiltrazioni della ‘ndrangheta nella processione dell’Affruntata di cui ho parlato qui. «Da sempre mio zio fino alla sua morte ha finanziato tale processione. Inoltre, esponenti delle cosche Franzé e Patania hanno sempre portato i santi, in particolare San Giovanni, il quale non poteva essere trasportato da soggetti estranei alla cosca dei Patania». Secondo la donna il parroco era complice dei clan e spifferava le informazioni ai Patania: «Era stato costretto perché o faceva così o andava a finire male anche lui», sostiene la donna.
Finita qui? Neanche per sogno. I tentacoli della ‘ndrangheta sarebbero arrivati anche ai cantieri dell’Alta velocità a Chiomonte. È l’ipotesi a cui lavora la procura di Torino con l’indagine «San Michele», con 31 persone rinviate a giudizio. Per non parlare di Verona, la città guidata dal leghista dissidente Flavio Tosi, su cui si sono accesi i riflettori della commissione Antimafia guidata daRosi Bindi, che ha chiesto alla Prefettura e al Comitato di sicurezza «una commissione d’accesso agli atti del Comune, anche alla luce di recenti fatti analizzati dalle procure di Bologna, Brescia e Catanzaro con l’inchiesta Aemilia che hanno visto il verificarsi di fatti inquietanti, di rapporti tra amministrazione ed associazioni criminali». Ovviamente Tosi, già sfiorato dal sospetto di collusioni con la ‘ndrangheta in una discussa puntata di Report, non l’ha presa bene: «Né il sottoscritto né alcun amministratore o dirigente comunale è indagato per le ipotesi avanzate dalla Bindi, quindi la richiesta più che ridicola è penosa». Sembra una sceneggiatura troppo complicata per essere messa in scena. E invece…