E il giudice finì nei guai per colpa dei Lo Giudice
Ma la cosca dei Logiudice esiste ancora? A questa domanda sembra dare una risposta la decisione della Procura della Repubblica di Catanzaro, che ha chiesto il rinvio a giudizio dell’ex sostituto pg di Reggio Calabria Francesco Mollace, adesso in servizio alla Procura generale presso la Corte d’appello di Roma. Mollace è indagato dalla Procura della Repubblica di Catanzaro per corruzione in atti giudiziari. Alla sbarra con lui finiranno Luciano Lo Giudice, fratello del boss Nino – pentito a fasi alterne – e Antonino Spanò, titolare di un cantiere nautico a Reggio Calabria, in cui Mollace avrebbe avuto la sua imbarcazione a rimessaggio.
La richiesta di Gerardo Dominijanni e Domenico Guarascio, a capo dell’inchiesta coordinata dal procuratore della Repubblica Vincenzo Antonio Lombardo, nasce dal memoriale del boss reggino Nino Lo Giudice, a capo di una cosca che Mollace avrebbe favorito. La vicenda è intricata e complessa: l’ex pentito Nino, come ho già scritto qualche tempo fa, ha detto tutto e il contrario di tutto ai magistrati reggini, anche attraverso memoriali messi più volte in discussione. Il dubbio che dietro il suo pentimento «ballerino» ci sia una macchinazione per colpire alcuni magistrati. Non ha convinto molti l’essersi autoaccusato di essere l’ideatore delle bombe fatte esplodere nel 2010 contro la Procura generale di Reggio Calabria e contro l’abitazione del procuratore generale Salvatore Di Landro e dell’intimidazione all’allora procuratore della Repubblica Giuseppe Pignatone, con il ritrovamento di un bazooka ad alcune centinaia di metri dal palazzo della Dda.
Nino ha anche chiamanto in causa il fratello Luciano, considerata la mente della cosca, salvo rimangiarsi tutto, con un video fatto immediatamente prima di abbandonare il rifugio protetto dove era stato nascosto: «Ho confessato perché ero manipolato dalla Dda di Reggio Calabria», cioè a suo dire dall’allora procuratore capo Giuseppe Pignatone, adesso a Roma, dell’aggiunto Michele Prestipino, del pm Beatrice Ronchi e dell’ex capo della mobile Renato Cortese, che oggi dirige la squadra mobile di Roma.
Nel fango era finito anche l’ex procuratore aggiunto della Dna Alberto Cisterna, che non ha mai negato la frequentazione con il presunto boss. Ma la cosca Lo Giudice, ripete sempre Cisterna, è stata lui a smantellarla nel 1993 arrestando il capofamiglia. E Cisterna è uscito pulito dai guai. Ma la cosca Lo Giudice esiste, almeno così pensano i pm di Catanzaro.
E qual è la colpa di Mollace? Aver sottovalutato le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia Maurizio Lo Giudice (fratello di Nino e Luciano) e Paolo Iannò (ex braccio destro e armato del superboss Pasquale Condello detto «il Supremo» arrestato dal Ros il 18 febbraio 2008 dopo una latitanza infinita) senza svolgere – secondo i pm di Catanzaro – le necessarie indagini per capire se i Lo Giudice a Reggio avessero ancora un peso oppure no. Per i due pentiti il peso lo avevano eccome. I magistrati catanzaresi scrivono che Mollace, per chiudere un occhio, avrebbe ricevuto in cambio «la dazione gratuita dei servizi di manutenzione e rimessaggio dei natanti ormeggiati nel cantiere di Calamizzi, gestito e diretto da Spanò e Luciano Lo Giudice, il primo quale prestanome del secondo».
A pesare su Mollace c’è soprattutto il giallo dell’omicidio di Angela Costantino, moglie del boss Pietro Lo Giudice, che secondo gli inquirenti sarebbe stata uccisa per salvare l’onore del capoclan. Il presunto mandante sarebbe Bruno Stilo, l’esecutore materiale Fortunato Pennestrì (considerato il reggente della cosca dopo l’arresto del boss) entrambi condannati a fine 2013 a 30 anni con una sentenza che ha rispecchiato in pieno l’impianto accusatorio portato avanti dal pm Sara Ombra.
I due sospettavano che mentre il marito era detenuto la donna fosse incinta di un altro uomo di cui si era innamorata- o Pietro Calabrese, poi trasferitosi a Roma o Domenico Megalizzi, scomparso nello stesso periodo, che riceveva telefonate a casa da parte di una ragazza di nome Angela – l’avrebbero strangolata il 16 marzo 1994 nell’appartamento che abitava da circa un mese a Reggio Calabria in via XXV luglio, in un immobile al piano terra che, per decenni, è stato il feudo storico della cosca Lo Giudice e poi ne avrebbero occultato il cadavere pur di salvare l’onore del capoclan.
Per il Gup Indellicati che ha deciso la condanna dei due ’ndranghetisti, come emerso dai documenti di natura medica agli atti dell’indagine, la situazione della donna «poteva essere compatibile sia con una disfunzione ginecologica, sia con un aborto precoce, a seguito di una gravidanza molto recente». Durante il processo sull’omicidio Mollace aveva difeso le sue scelte investigative con qualche «non so, non ricordo» di troppo, tanto che in una lettera al Collegio presieduto da Silvia Capone lo stesso magistrato ammise di non aver ricordato bene, tanto che il pm Beatrice Ronchi spingerà, con le sue indagini, a indurre il presidente del Collegio a verbalizzare «la falsità delle affermazioni di Mollace».
Ad aprire squarci di luce sulla vicenda, finita anche su Chi l’ha visto, fu soprattutto Maurizio Lo Giudice, che nel ’99 indicò in Pennestrì l’esponente più di spicco della cosca Lo Giudice, insieme a Bruno Stilo («Era lui che prendeva in mano tutta la famiglia… dopo che sono stati arrestati… andava pure a chiedergli i soldi), e nell’ipotizzare che la donna, madre di quattro figli, fosse invaghita di un altro («Aviva perdutu a testa, dottori!») . La conferma a Maurizio Lo Giudice l’avrebbe data lo stesso Pennestrì, che poi avrebbe contribuito a depistare le indagini. Le dichiarazioni di Maurizio Lo Giudice di fine anni Novanta («In quei giorni Natino Pennestrì prese la palla al balzo, disse che Angela si lamentava con tutti noi che si buttava dal porto, dai ponti, così creò un po’ di pubblicità che era pazza, dei falsi ricercamenti, che portarono per… la credibilità che Angela era veramente malata») non furono considerate credibili fin quando il pm Beatrice Ronchi deciderà di riaprire le indagini e incrociarle con le affermazioni di almeno altri due collaboratori di giustizia considerati attendibilissimi, appunto Paolo Iannò e Domenico Cera.
Insomma, la cosca decapitata da Cisterna all’inizio degli anni Novanta era ancora pienamente operativa, tanto da orchestrare un omicidio. Nino, Maurizio e Luciano avevano rapporti privilegiati con magistrati e forze dell’ordine, come raccontano le ultime vicende giudiziarie. Adesso per Mollace si apre un processo difficile. Le cui conseguenze, anche sui delicatissimi equilibri tra la Procura reggina e quella catanzarese, potrebbero essere inimmaginabili…