«La ‘ndrangheta ci spia». La frase pronunciata dal garante della privacy Antonello Soro sa di sconfitta dello Stato. «Mi meraviglierei del contrario, e cioè che non fosse in grado di intercettare mail e telefonate. La criminalità informatica ha assunto dimensioni globali assolutamente straordinarie rispetto solo a quattro anni fa», ha detto l’ex parlamentare Pd ospite dell’ultima puntata di KlausCondicio.

La sconfitta dello Stato è resa ancora più amara dall’autore della sciagurata ammissione, cioè colui che dovrebbe garantire la nostra privacy. Si dirà: ma che poteri ha il Garante? Non ha mica poteri giudiziari o investigativi. Appunto, e allora che ci sta a fare lì? A che serve ammettere una verità – che peraltro mi è stata confermata anche da qualche fonte, soprattutto tra chi si muove in quella zona grigia che sta tra lo Stato e l’antiStato – se poi non si ha il coraggio di ammettere di essere, sostanzialmente, inutili?

E la ‘ndrangheta, intanto, se la ride. Come a Platì, dove lo stesso viceministro dell’Interno Filippo Bubbico si è cosparso il capo di cenere ammettendo che la mancata presentazione delle liste elettorali (a Platì e in qualche altro piccolo Comune calabrese) dopo lo scioglimento per infiltrazioni mafiose è una sconfitta della democrazia aggiungendo il solito, inutile ritornello del bla bla «bisogna garantire e rafforzare i presidi di legalità», frase che se l’avessi brevettata alla Siae sarei ricco. Per Bubbico «il problema riguarda anche i cittadini e la cultura che spesso noi esprimiamo e che in certe situazioni diventa subalterna ai poteri mafiosi e ai poteri illegali tanto da sedimentarsi come subcultura dell’indifferenza e della protesta». E anche a lei, viceministro, la domanda sorge spontanea: che ci sta a fare al Viminale?

Eppure la ‘ndrangheta ha paura. Ha paura di persone come Maria Concetta Cacciola, di cui parla il Corriere della Sera oggi e di cui abbiamo già scritto qui e qui. E fa bene il deputato Pd Davide Mattiello, componente della commissione Antimafia, a bacchettare via Solferino che l’ha definita una pentita: «Maria Concetta era una testimone, cioè una persona che senza aver mai preso parte alla commissione di delitti di ’ndrangheta orditi dalla famiglia alla quale apparteneva, decide di rompere e di raccontare tutto quel che sa. L’onore di Maria Concetta Cacciola è già stato vilipeso dai familiari e dai sodali di questi che hanno cercato di accreditare la versione del suicidio e far passare Maria Concetta come una povera pazza, massima attenzione allora a non aggiungere offesa a offesa».

È lecito pensare che una donna possa far tremare la più importante organizzazione criminale che fattura 60 miliardi (tutta la criminalità europea ne vale 110, secondo Transcrime) rivelando ciò che sa? Sì, peccato che lo Stato non faccia abbastanza per tutelare lei e gli altri pentiti e i collaboratori di giustizia – penso a Luigi Bonaventura, ad esempio – e così le ‘ndrine prosperano grazie alla peculiare struttura familiare che la rende quasi impenetrabile.

Talmente impenetrabile che nei guai è finito persino un prete, già allontanato dalla parrocchia in via «precauzionale» all’epoca in cui si è venuti a conoscenza delle indagini. Già perché il giudice distrettuale dell’udienza preliminare di Catanzaro ha rinviato a giudizio Salvatore Santaguida, l’ex parroco di Stefanaconi (Vibo Valentia) indagato per concorso esterno in associazione a delinquere di stampo mafioso insieme all’ex comandante della stazione dei carabinieri di Sant’Onofrio, il maresciallo Sebastiano Cannizzaro (da pochi giorni tornato in libertà dopo quasi un anno di custodia cautelare in carcere) nell’ambito dell’inchiesta della Direzione distrettuale antimafia di Catanzaro contro la cosca Patania di Stefanaconi denominata «Romanzo criminale». È la storiaccia della processione di Sant’Onofrio e del rapporto tra ‘ndrangheta e Chiesa che forse, finalmente, esce da un equivoco lungo cinquant’anni.

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