Il coraggio uno, se non ce l’ha, non se lo può dare. Le parole che Alessandro Manzoni nei Promessi Sposi mette in bocca a Don Abbondio calzano a meraviglia per il vicepresidente del Pd Lorenzo Guerini, che si è gonfiato il petto parlando di Platì, comune sciolto per mafia prossimo al voto. Peccato che nessun partito, neanche il suo, abbia presentato una lista elettorale. Allora ecco la genialata: celebrare la Festa della Repubblica a Platì – che è come festeggiare Pasqua in mezzo a un gregge di agnelli – mentre il Pd in Aspromonte tiene la sua assemblea regionale. «Idealmente ci sarà anch’io», ha detto Guerini.

Idealmente, è questo il problema. Perché idealmente lo Stato dovrebbe essere a Platì tutto l’anno ma così non è, e lo sanno anche gli agnelli sacrificali. E non c’entra il commissario prefettizio, la stazione dei carabinieri, lo Stato che c’è perché deve esserci. Parlo della politica, tutta. Da destra (se ancora esiste) a sinistra.

Non basta una comparsata pre estiva a fare vedere che lo Stato c’è. Idealmente. Bisogna farsi vedere. Bisogna parlare. Bisogna sapere con che cosa si ha a che fare. Un’idea Guerini potrebbe farsela leggendo le carte dell’inchiesta che ha sfiorato l’assessore regionale Pd Nino De Gaetano, che secondo gli investigatori è stato votato dalla ‘ndrangheta quando era l’enfant prodige di Rifondazione comunista, tanto che si era persino ipotizzato di arrestarlo.

Il neo governatore calabrese Mario Oliverio detto il lupo ha avuto il fiuto di metterlo in giunta a dispetto delle pesantissime ombre, molti militanti democrat l’hanno presa male, l’ex ministro degli Affari regionali Maria Carmela Lanzetta che si era dimessa da Roma per lavorare come assessore in Calabria ha preferito restare a spasso piuttosto che sedersi a fianco a lui in giunta. Ma forse Guerini, idealmente, questo non lo sa. Come non sa, o non vuole ricordare, le altre magagne del Pd

Allora Guerini potrebbe dare un’occhiata ai giornali, all’inchiesta Columbus che ha scoperchiato l’asse tra ‘ndrangheta e mafia a stelle e strisce, per capire come le cosche calabresi abbiano definitivamente soppiantato Cosa nostra come avevamo già scritto, di come i calabresi oltre oceano regolano i conti quando qualcuno sgarra, come diceva al telefono Gregorio Gigliotti, ristoratore di 58 anni considerato dall’Fbi un broker del traffico di droga in contatto con esponenti delle famiglie mafiose newyorchesi, con personaggi di spicco della ’ndrangheta legato alla cosca Alvaro di Sinopoli e Crea di Rizziconi e con i narcos sudamericani.

Magari Guerini potrebbe farsi un’idea di come si ammazza un emissario per un debito da 20mila dollari («Se mi dice “me li sono presi io” – dice Gigliotti intercettato – bum bum lo scarico a terra lo pisturiu, lo stiracchio (incomprensibile) e lo lascio in mezzo la str… in piazza… poi che venga il fratello… se viene il fratello, lo piglio e lo sparo… il fratello… eh… se non sta attento»), magari restando idealmente stupito di come Gigliotti ha confessato alla moglie di essersi letteralmente mangiato gli organi di qualcuno («Un rene e un pezzo di cuore») come gesto plateale di oltraggio alla vittima ricevendo una reazione disgustata: «Perché tu sei mezzo pazzo. Mi fai venire il rovescio, Grè…».

Il cannibalismo dei mafiosi non è una novità. Nel 1984 Filippo Barreca, detto il ragioniere, era stato arrestato insieme ad altre 43 persone con l’accusa di traffico internazionale di stupefacenti ma durante il dibattimento, grazie a una diagnosi di cancro, era
riuscito ad ottenere la libertà provvisoria. Durante un altro processo ammise un macabro escamotage: «Ho mangiato carne umana per risultare affetto da tumore». Intanto i medici che gli avevano diagnosticato il cancro erano finiti nei guai perché si pensava che le cartelle cliniche fossero state manipolate, visto che da un’indagine peritale effettuata il 21 luglio 1987 risultò che Barreca non era affetto da «adenocarcinoma gastrico». Oggi la cosca Barreca non esiste più ma forse Guerini, idealmente, non sa neanche questo.

Intanto la lotta alle cosche si intreccia con i veleni che arrivano dai pentiti (veri o finti che siano) e dalle Procure, con in mezzo alcuni importanti magistrati che finiscono in un cono d’ombra. Il 20 maggio, come scrive Claudio Cordova sul Dispaccio l’avvocato di un pentito e il suo stesso cliente saranno alla sbarra a Roma per difendersi dalle accuse di aver screditato un altro presunto pentito, quel Nino Lo Giudice che i lettori del blog conoscono bene. A che pro? Perché Lo Giudice aveva chiamato in causa due toghe di peso, una delle quali – Franco Mollace – è ancora sulla graticola, accusandoli di fatto di collusione con la ‘ndrangheta.

Chi ci sarebbe dietro questa macchinazione contro Lo Giudice? Gli stessi magistrati? Una mente raffinatissima? Lo Giudice è credibile? Domande a cui dovrà dare risposta il processo. Il pentito si chiama Antonio Di Dieco, lui sostiene che ci sarebbe un «complotto nazionale» contro due importanti magistrati (l’altro è Alberto Cisterna) che però, e qui la cosa si fa interessante, sia Mollace che Cisterna avevano rapporti fittissimi con il legale di Di Dieco, l’avvocato Claudia Conidi.

Rapporti leciti, evidentemente, e cordiali, costruiti attraverso telefonate e una fitta corrispondenza. E già che c’era del caso Di Dieco la Conidi parlava anche con importanti giornalisti che si occupano di ‘ndrangheta, da Paolo Pollichieni a Roberto Galullo, che sul blog del Sole24Ore sposerà in pieno l’ipotesi dell’inattendibilità di Lo Giudice. La Conidi telefonava anche al vicequestore aggiunto Fernando Papaleo, uno degli investigatori del caso Scajola, tentando di convincerlo a riaccreditare Di Dieco come teste credibile tirando fuori un fantomatico piano di cui lo stesso pentito sarebbe stato a conoscenza e ideato nel 2001 da una cosca cosentina per ammazzare lo stesso Papaleo, all’epoca in servizio presso la Mobile di Cosenza.

Siamo alle solite, al cortocircuito mediatico giudiziario in cui le trame degli avvocati si mescolano agli spifferi fatti trapelare ad arte sui giornali, in cui magistrati e delinquenti si mettono sullo stesso piano, si accusano a vicenda mentre la stampa fa il tifo in base ad amicizie e simpatie personali. La ‘ndrangheta – al solito – se la ride. E la politica non si fa sentire né vedere. Neanche idealmente…

Ps: a proposito di Scajola. Il gip di Reggio Calabria ha emesso un’ordinanza di custodia cautelare per l’imprenditore catanzarese che vive in Libano Vincenzo Speziali, accusato di procurata inosservanza della pena, aggravata dall’avere agevolato un sodalizio mafioso collegato alla presunta Spectre affaristico-massonica che avrebbe organizzato la latitanza dell’ex deputato di Forza Italia Amedeo Matacena, condannato in via definitiva a tre anni di reclusione per concorso esterno in associazione mafiosa ed adesso latitante a Dubai. Speziali, a detta del pm dell’accusa Giuseppe Lombardo, è considerato «latitante» come Matacena. Secondo l’ipotesi dei pm Speziali avrebbe cercato di sfruttare i suoi contatti con politici libanesi di primo piano, tra i quali l’ex presidente Amin Gemayel, per aiutare l’ex ministro dell’Interno Claudio Scajola a fare trasferire Matacena da Dubai a Beirut, in Libano, ritenuto dagli indagati – sempre secondo l’accusa – un luogo più sicuro per evitare un’eventuale estradizione dell’ex parlamentare di Forza Italia. «È la prova di quello che ho sempre sostenuto – ha risposto Speziali da Beirut – sono un perseguitato politico». Speziali ha aggiunto di non essere «latitante», come detto dal pm della Dda Giuseppe Lombardo, affermando che l’atto gli andava notificato a Beirut, dove risiede, essendo iscritto all’Anagrafe degli italiani residenti all’estero.

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