Per nove anni ha vissuto come un fantasma, nascosto in Pakistan, con i servizi segreti di mezzo mondo che gli davano la caccia senza mai mollare la presa. Com’è andata a finire lo sappiamo: Osama bin Laden è stato ucciso il 2 maggio 2011 durante un blitz delle forze speciali americane. Anni e anni di ricerche fino all’intuizione giusta, quella di seguire un corriere che portava le informazioni allo sceicco del terrore, che per non lasciare alcuna traccia non usava né telefoni né internet.Poi l’assalto finale alla casa-fortezza di Abbottabad, in Pakistan, 50 km a nord di Islamabad.

Eppure bin Laden non era un fantasma. In Pakistan qualcuno sapeva e faceva finta di non vedere. La sua mancata cattura, per nove lunghi anni, è stata possibile per “l’enorme incompetenza” degli organi statali e per l’incapacità dei servizi segreti militari a risalire ai suoi covi e complici. È la conclusione del rapporto di una commissione di inchiesta rivelato dal quotidiano The Dawn e poi pubblicato anche sul sito di Al Jazeera in versione integrale. In 336 pagine il rapporto, sino ad ora tenuto segreto dal governo pachistano, assesta durissimi colpi alla credibilità dell’Isi, il servizio di controspionaggio del Pakistan. L’intelligence di Islamabad – si legge – “ha agito senza professionalità, scarso impegno per combattere il terrorismo e anche ostacolando l’attività delle altre agenzie di spionaggio”. La domanda sorge spontanea: possibile che fossero così sbadati gli 007 pachistani? Oppure si voleva evitare di far scoprire ciò che molti sospettavano, cioè che bin Laden si nascondesse proprio in Pakistan?

Il rapporto si basa su circa 200 testimonianze, tra cui quelle delle tre vedove che erano con bin Laden nel fortino di Abbottabad. Viene descritta con minuzia di particolari la vita del leader di al Qaeda, dal suo arrivo in Pakistan, nel 2002, dopo essere scampato ai bombardamenti americani di Tora Bora, fino agli ultimi momenti della sua vita. Vengono descritti anche i suoi complici (l’autista-guardia del corpo Ibrahim Al Kuwaiti e il fratello di Osama, Abrar, erano i soli che uscivano dal rifugio per fare acquisti) e alcune curiosità, come ad esempio il cappello da cow-boy che bin Laden indossava ogni volta che usciva di casa, per evitare di essere intercettato dalle fotocamere installate sui droni. Nel dossier si parla anche di un episodio da film (più comico che di spionaggio): un giorno un agente ferma per eccesso di velocità il veicolo su cui viaggiavano bin Laden e alcuni suoi complici. L’autista, Ibrahim, risolve il problema senza che la guardia si accorga di bin Laden.

La Commissione che ha redatto il rapporto, guidata da un giudice Javed Iqbal, in un passaggio del documento definisce il raid dei Navy Sail ad Abbottabad una “delle più grandi umiliazione militari”. Sicuramente quell’umiliazione non è ancora passata. Così come il sospetto che Islamabad abbia provato a coprire, per anni, il “segreto di Pulcinella”.

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