Bush_Trump_RubioSe i sondaggi fossero davvero così importanti Barack Obama non sarebbe mai diventato presidente. A sfidare John McCain, nel 2008, sarebbe stata Hillary Clinton. E lo stesso dicasi per John Kerry: a contendere la poltrona della Casa Bianca a George W. Bush, nel 2004, sarebbe stato Howard Dean, che i sondaggi e i media liberal fino all’ultimo consideravano favorito, ma che si sgonfiò come un palloncino bucato appena ebbe inizio la corsa delle primarie democratiche.

I sondaggi, così come i dibattiti, catturano l’attenzione dei media e sicuramente influenzano l’opinione pubblica, ma non sono la parte più importante delle prime fasi di una campagna presidenziale. Nella lunga corsa per la Casa Bianca giocano un ruolo essenziale le cosiddette “primarie invisibili“. Di cosa si tratta? Per vincere è necessario conquistare il maggior numero possibile di sostenitori, non solo in termini di voti, ma soprattutto (all’inizio) di colleghi politici, leader di partito a vario livello e ovviamente donatori. Un candidato che voglia imporsi deve conquistare le “primarie invisibili”, precondizione per la vittoria nelle primarie vere e proprie, in una sfiancante galoppata che dura mesi e costa moltissimo. Di solito un candidato che si impone nelle primarie invisibili ha ottime chance di ottenere la nomination del proprio partito. Ma ci sono anche delle eccezioni (vedi Obama nel 2008, che sbaragliò la superfavorita Clinton).

Possiamo dunque dire che i sondaggi non contano nulla? Non del tutto. Esprimono, anche se in modo grossolano, il “peso specifico” di una candidatura. Ma sono estremamente labili e possono indurre in errore, soprattutto se guardiamo a quelli “nazionali”. Perché gli unici sondaggi che davvero contano solo quelli dei singoli Stati, dove la corsa delle primarie si snoda nell’arco di 5-6 mesi. Quindi, in questo momento, contano molto di più i sondaggi di due piccoli Stati come Iowa e New Hampshire (in tutto 4 milioni di abitanti) rispetto a quelli di tutti gli Usa (325 milioni di abitanti). Perché è da questi due Stati cvhe si inizierò a fare sul serio.

favoriti_gopUn’interessante analisi del New York Times analizza vari aspetti della campagna elettorale, giungendo a questa conclusione: se a sinistra la sfida è già decisa, con Hillary Clinton che praticamente ha in tasca la nomination, a destra è Jeb Bush ad essere in vantaggio, anche se molto risicato. Un risultato che sorprende, guardando ai sondaggi e alle cronache degli ultimi dibattiti in tv. Hillary gode del sotegno del 60% dei vip del suo partito (governatori, senatori, deputati e leader del passato), Bush invece è fermo a meno del 10%. Ma è il fronte repubblicano ad essere ancora inchiodato, in attesa di scoprire le carte e vedere chi, dietro ai due candidati anti sistema (Trump e Carson), può avere l’appeal giusto per imporsi, possibilmente riunendo – ed è questo è lo sforzo più difficile di tutti – le varie anime del partito.

Nelle ultime sei primarie gli elettori repubblicani dell’Iowa hanno “eletto” due volte il candidato che ha vinto (Bob Dole nel 1996 e George W. Bush nel 2000); meglio hanno fatto i democratici, scegliendo quattro candidati vincenti su sei competizioni. Il New Hampshire può vantare una percentuale maggiore di “successo”: hanno ottenuto la nomination repubblicana quattro candidati su sei (dal 1980) e tre su sei per i democratici (dal 1984). Inutile ripetere che sono importanti entrambe le competizioni, sia i caucus dell’Iowa che le primarie del New Hampshire, ma potendo scegliere dove concentrare maggiormante gli sforzi potremmo dire che è meglio farlo nel secondo Stato. Ovviamente la corsa non finisce lì: si va avanti con il Nevada, il South Carolina, fino alla vera grande sfida, quella che davvero potrebbe essere decisiva, il Super Martedi, che quest’anno cade il 1° marzo: si voterà in 11 Stati (12 per il Gop). La storia insegna che nessun candidato ha ottenuto la nomination del proprio partito aggiudicandosi zero delegati in Iowa e New Hampshire. Insomma, si può anche non vincere all’inizio, l’importante è evitare una disfatta.

republicrat-anthony-Freda-400x270Veniamo ora ai soldi. Sono importanti, ovviamente. Prima di tutto perché esprimono lo “stato di salute” di un candidato. Se è davvero forte, può contare su tanti soldi, da investire non solo in spot pubblicitari, ma anche nello staff che lavora giorno per giorno per il candidato, nei più svariati angoli del Paese. La campagna elettorale, infatti, non si gioca in pochi giorni o settimane, ma dura mesi e richiede un lavoro capillare sul campo, strada per strada, quartiere per quartiere. Internet conta sempre di più, così come i “profili” degli utenti dei social. Ma il contatto diretto è ancora il motore numero uno delle campagne elettorali. Sotto l’aspetto finanziario con 133 milioni di dollari Jeb Bush è in testa nel campo repubblicano, anche se la maggior parte del denaro è in mano al suo Super Pac (108 milioni), quindi non può utilizzarlo lui direttamente. A seguire c’è Ted Cruz (65 milioni), Marco Rubio (47,7), Ben Carson (31,6), Chiris Christie (18,2). Trump sino ad ora è indietro, all’11° posto, con  5,8 milioni interamente sborsati da lui. Sul fronte democratico Hillary Clinton ha raccolto 97,7 milioni, a fronte dei 41,5 di Bernie Sanders e dei 3,6 miliioni di Martin O’Malley.

 

Tag: , , , , , ,