Trump, tra Mao e Andreotti
Il titolo del libro “Apocalypse Trump” (ed. Ares), di Stefano Graziosi, trae spunto da una battuta che fece Hillary Clinton nella campagna elettorale per le presidenziali 2016: “Io sono l’ultima cosa che separa voi dall’Apocalisse”. Ovviamente l’Apocalisse, a suo dire, era The Donald. Il tycoon ha conquistato la Casa Bianca puntando su alcuni punti fermi: abbattimento del sistema, movimentismo, eliminazione dei filtri con l’elettorato e difesa della cosiddetta maggioranza silenziosa. Dopo essersi accomodato nella Stanza ovale ha continuato ad applicare la sua linea di rottura, rompendo gli schemi legati alla Guerra fredda, quelli nel rapporto con il Congresso e quelli nelle relazioni con il mondo mediatico. Qualcuno potrebbe pensare che l’unico pensiero fisso di Trump sia avere un nemico contro cui scagliarsi. Ma è una visione troppo semplicistica. Il libro di Graziosi ci aiuta a capire il fenomeno Trump, senza schemi pregiudiziali o filtri ideologici.
Un parallelo che colpisce è quello che l’autore fa tra il presidente Usa, Mao Tse-tung e Giulio Andreotti. La “rivoluzione permanente” teorizzata dal grande timoniere cinese può essere paragonata, per certi versi, all’eterno caos che imperversa alla Casa Bianca, con un continuo ricambio di ministri e collaboratori, e non pochi mutamenti della linea politica. Al di là degli errori frutto dell’inesperienza, dietro a quest’atteggiamento apparentemente schizofrenico potrebbe esserci una precisa strategia, che poi era quella di Mao: tenere le leve del potere “attraverso un movimentismo costante, colpendo gli avversari interni e impedendo che la società e le istituzioni cinesi si ritrovassero soggette a cristallizzazioni di potere e a rendite di posizione”. Trump riadatta questa strategia tenendo sotto costante pressione i suoi collaboratori, e attraverso il movimentismo mantiene in piedi il contatto diretto con il suo elettorato. Evita in modo sapiente di istituzionalizzarsi troppo, cosa che finirebbe col tradire la propria base. Questo perenne caos permette al presidente di evitare il formarsi di “grumi di potere interni all’esecutivo, che potrebbero contrapporsi alla sua persona e alla sua linea”. Insomma, non c’è niente lasciato al caso.
L’arte andreottiana, invece, sta nel sapersi adattare alle diverse situazioni, cambiando idea di frequente, con una certa dose di cinismo e spregiudicatezza. Non a caso spesso Trump si intesta battaglie tradizionalmente legate al mondo democratico. Basti pensare alle armi: pur essendo uno strenuo difensore della lobby delle armi e del secondo emendamento, il presidente non ha mancato di esprimersi a favore di limitazioni che contrastano con la linea portata avanti dai repubblicani negli ultimi anni. Idem sul fronte del protezionismo e dei dazi, con molti seguaci del “socialista” Bernie Sanders che apprezzano le idee del presidente, e i repubblicani, invece, che in nome del libero mercato, non hanno risparmiato critiche alla Casa Bianca. Trump sembra molto abile nell’utilizzo della “strategia dei due forni” di andreottiana memoria (il leader democristiano per sostenere i propri governi era abile nel barcamenarsi tra le istanze sociali del Psi, e quelle liberiste del Pli). L’atteggiamento altalenante del presidente, invero, non caratterizza solo le relazioni politiche interne, ma anche quelle internazionali. Trump sembra usare in modo sapeinte la tecnica del “bastone e della carota”, arrivando quasi allo scontro irrimediabile, per poi aprire alla trattativa e alla mediazione. Riesce, con abilità, a dosare i seguenti ingredienti: movimentismo e diplomazia, rottura e riformismo. “Quello davanti a cui ci troviamo – scrive Graziosi – è una sorta di centauro, una mescolanza tra Mao e Andreotti, tra la volpe e il leone, che non è chiaro ancora se riuscirà a fondare una tradizione politica o se sarà invece destinata a risolversi in una bolla di sapone”.
Molto interessante ciò che ha detto Paolo Pagliaro, nella copertina di Otto e mezzo (La7), subito dopo le elezioni di Midterm:
“La sua leadership è fondamentalmente bonapartista, con un’efficace comunicazione politica basata sulla pressoché totale disintermediazione con l’elettorato, su un costante contatto diretto con le folle e sul dileggio nei confronti dei media tradizionali. Ma questo tipo di leadership mal si sposa con l’impianto politico-istituzionale prescritto dalla Costituzione, e con la logica dei pesi e contrappesi su cui si fonda la democrazia liberale. Potrebbe sembrare una riflessione sull’attualità italiana mentre invece riguarda Trump, anzi “Apocalypse Trump”, come si intitola il libro scritto da Stefano Graziosi per le Edizioni Ares.
Anche per chi studia il trumpismo è tempo di bilanci di metà mandato. Graziosi è convinto che molto del futuro politico di Trump si giocherà sulla capacità di mantenere dei buoni rapporti col congresso parzialmente rinnovato ieri. Negli Stati Uniti i padri costituenti furono influenzati dalla lettura dei classici come Platone e Aristotele ed è anche per questo che la Costituzione americana presenta una serie di meccanismi per bilanciare i vari poteri e diluire, in qualche modo, il peso della volontà popolare. Come scrive Ferruccio De Bortoli nella prefazione, gli americani votano Trump anche per i suoi difetti, per il suo carattere, per quella volontà di spezzare le regole del politicamente corretto, di liberare il paese dai suoi troppi impegni internazionali, di riequilibrare la bilancia commerciale difendendo il lavoro anche con misure protezionistiche. Ma a impedire gli eccessi di questa politica spesso pericolosamente spavalda ci sono istituzioni forti e una classe dirigente di qualità.
Ne parla lo storico Giuseppe Mammarella, professore emerito a Stanford, nel suo “America First” pubblicato dal Mulino. È un ritratto inatteso dell’America d’oggi: un paese profondamente diviso, che sembra aver perso le coordinate della sua azione politica, ma che dimostra però di avere un’eccezionale vitalità e grandi capacità di ripresa”.