Guerra civile negli Usa
Donald Trump sente il “profumo della vittoria”, convinto com’è di avere in tasca la nomination repubblicana. La corsa delle primarie deve ancora partire ma l’ex presidente, intanto, lancia dei segnali di forza. Maliziosamente fa sapere che alcuni membri dello staff di Ron DeSantis, suo principale sfidante, gli stanno chiedendo un lavoro. “Stiamo ricevendo molte richieste di lavoro da persone che attualmente sono impiegate per la Social Security/Medicare cutting DeSanctimonious Campaign”, ha scritto Trump su Truth, il suo social network. E per farsi beffa del rivale lo chiama non per nome ma con un soprannome, secondo un vecchio schema ben collaudato con cui tende a liquidare i nemici politici. Quello che ha scelto per il governatore della Florida è “bigotto”.
Poi Trump affonda il colpo: “I numeri di Ron nei sondaggi stanno diminuendo così velocemente e furiosamente che molte persone ipotizzano che non si candiderà”. Intanto l’organizzazione elettorale del tycoon ha scritto ai donatori della Florida di DeSantis chiedendo loro di allinearsi dietro l’ex presidente. L’attacco, ormai, è frontale. Del resto è ormai certo che la sfida, in seno al Gop, sarà tra Trump e DeSantis. Nessun altro.
Trump sembra non soffrire affatto delle inchieste giudiziarie nei suoi confronti. Sfida i procuratori che lo indagano e, anzi, ne trae linfa vitale, mostrandosi vittima della persecuzione giudiziaria. Ormai lo scontro politica-giustizia è durissimo. Al punto che il procuratore di Manhattan che ha incriminato l’ex presidente per il caso Stormy Daniels, Alvin Bragg, mette le mani avanti: “I repubblicani della Camera stanno cercando di minare un’indagine in corso con una campagna senza precedenti di intimidazioni. I ripetuti tentativi di indebolire le autorità statali e locali sono un abuso di potere che non ci scoraggerà nel perseguire il nostro compito di difendere la legge”. Bragg ha risposto in questo modo dopo che il presidente della commissione giustizia della Camera ha spiccato un mandato di comparizione per Mark Pomerantz, ex dell’ufficio del procuratore di Manhattan, per il suo ruolo nelle indagini su Trump. Il clima è incandescente. Il giudice Juan Merchan, che presiede il procedimento penale contro Trump, la sua famiglia e il tribunale di Manhattan hanno ricevuto diverse minacce dopo l’udienza di martedì. Lo stesso il procuratore Bragg e altri alti funzionari del suo ufficio.
Joe Biden non ha voluto commentare le vicende giudiziarie di Trump, ma la Casa Bianca, attraverso la portavoce Karine Jean-Pierre, ha sottolineato che il presidente condanna “ogni tipo di attacco a qualunque giudice a al nostro sistema giudiziario”.
Poche ore dopo l’incriminazione a New York, Trump ha attaccato a testa bassa l’Fbi, e non solo. “I repubblicani del Congresso devono tagliare i fondi al dipartimento di Giustizia e Fbi fino quando non rinsaviscono”. I democratici – ha detto l’ex presidente – hanno trasformato la giustizia in un’arma nel nostro paese e stanno usando questo abuso di potere per interferire nelle nostre elezioni già sotto assedio”.
I tempi della giustizia e il caso Georgia
Le accuse nei confronti di Trump, come preannunciato dai pubblici ministeri, verranno formulate entro i prossimi 65 giorni. Gli avvocati dell’ex presidente, invece, avranno tempo fino all’8 agosto per presentare le loro mozioni, con l’accusa che potrà rispondere entro il 19 settembre. La prossima udienza è stata fissata per il 4 dicembre. Trump vorrebbe far sgonfiare prima il caso, ma non è detto che ci riesca. E potrebbero aprirsi altri fronti giudiziari, ad esempio quello in Georgia, dove Trump è accusato di interferenze per cercare di ribaltare i risultati elettorali nella contea di Fulton. L’accusa, in questo caso, si focalizza su una telefonata, in cui l’allora presidente chiese al segretario di Stato della Georgia, Brad Raffensperger, di “trovare 11.780 voti, uno in più di quelli che abbiamo” per vincere le elezioni.
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