Alla fine Joe Biden ha deciso di farsi da parte. Si è fatto convincere che fosse la cosa migliore, per lui e per gli Stati Uniti. Non si presenterà per un altro mandato alle elezioni di novembre. A indurlo al passo indietro sono “ragioni di opportunità”, per così dire, legate al peggioramento delle sue condizioni di salute psico-fisica.

La molla è stata il dibattito in diretta tv dello scorso 28 giugno, in cui a giudizio quasi unanime il presidente in carica ha fornito una prova tutt’altro che brillante, mostrando incertezze e pause preoccupanti. Ne è nata una fortissima pressione per indurlo a dimettersi, alla quale Biden ha provato a resistere con tutte le proprie forze. Ma quando alla pressione mediatica e politica ha fatto seguito la chiusura dei rubinetti da parte dei finanziatori, che hanno cominciato a congelare le proprie donazioni a favore dei dem, il discorso si è fatto più preoccupante. Le “gaffe” di Biden non si sono interrotte, come quando, durante il vertice Nato a Washington, davanti a tutti i leader ha presentato il presidente dell’Ucraina chiamandolo Putin, correggendosi con una battuta solo in un secondo momento.

Dopo l’attentato subito da Trump la campagna elettorale del tycoon sembra volare. Il repubblicano ha cambiato registro, mostrandosi un po’ meno aggressivo. Ora, con il passo indietro di Biden, cosa cambia? Sulla carta, potremmo dire, Trump ha già in tasca la vittoria. Ma è proprio così? Il tycoon mostra un certo nervosismo. E va all’attacco: “Se non può candidarsi non può neanche governare”. Cosa assolutamente falsa, perché nessuno ha dichiarato inabile il presidente. Si è trattato, invece, di una libera decisione di Biden quella di farsi da parte, non come presidente bensì come candidato.

Il XXV emendamento della Costituzione degli Stati Uniti d’America definisce la linea di successione presidenziale e affronta il protocollo da adottare nell’eventualità di un impedimento del Presidente per inabilità manifesta o malattia

La mistificazione di Trump farebbe pensare che il tycoon è nervoso, preoccupato. Eppure, viste le difficoltà dei democratici, ha il vento in poppa (e la vittoria quasi in tasca). Quindi perché si preoccupa così tanto? Ha davvero paura di Kamala Harris che, tanto per cambiare, ha definito “pazza”? Oppure ha paura di altro?

Che succede ora?

Tecnicamente il potere di decidere chi sarà il candidato ce l’hanno i delegati della convention democratica, che si riunirà dal 19 al 22 agosto a Chicago. Potrebbe essere una convention “aperta”, nel senso che più candidati si contenderanno la nomination, oppure no, nel senso che tutti si allineeranno all’indicazione data da Biden (Kamala Harris). Non è scontato che la vicepresidente corra al posto di Biden, ma a ben vedere appare la scelta meno rischiosa e più sensata, se non altro per evitare pericolose spaccature, in seno al partito, a due mesi dal voto. L’unica certezza è questa: i democratici hanno perso un anno. Se il processo per il cambiamento di candidato fosse iniziato l’anno scorso l’elezione presidenziale del prossimo novembre sarebbe stata tutta un’altra cosa. Ci hanno rimesso tutti, e le colpe, in primis, sono di quei dirigenti che ora hanno agito più o meno apertamente (Obama e pelosi in primis) per costringere Biden a farsi da parte.

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