Mircea Eliade: mito e sacro a teatro
Nella corso della sua vita Mircea Eliade si è cimentato con generi letterari diversi, dalla diaristica alla narrativa, dalla saggistica alle interviste… Vi ha sempre impresso il proprio sigillo, la propria visione del mondo. Se ne era accorto il grande Vintilă Horia, altro protagonista dell’esilio romeno del tormentato Novecento: «Nei romanzi e nei racconti Mircea Eliade ha realizzato ciò che, su un piano diverso, ha fatto nelle sue ricerche di storia delle religioni». Tra le pubblicazioni in lingua italiana di Eliade mancavano all’appello quasi tutte quelle drammaturgiche. A colmare questa lacuna è Tutto il teatro. 1939-1970 (Edizioni Bietti, Milano 2016), raccolta di cinque pièce che nulla hanno da invidiare alle altre opere dello storico delle religioni – il quale, tra l’altro, di teatro aveva già parlato ne La foresta proibita, Incognito a Buchenwald e soprattutto Diciannove rose.
A orientare Ifigenia, Uomini e pietre, 1241, Avventura spirituale e La colonna infinita sono gli stessi principi che troviamo ovunque nella sua produzione: in primis il camuffamento del sacro nel profano, l’idea cioè che qualunque cosa sia sacra, anche in quelle epoche che il sacro apparentemente hanno reciso. «Ogni arte è uno strumento della contemplazione» dice il Constantin Brâncuşi della Colonna infinita. Quello di Eliade è un teatro molto diverso da quello impegnato o realista: il proscenio è la versione moderna di uno scenario rituale, filiazione diretta di mito e rito. Nel mondo in cui Dio è morto, Eliade propone un’arte anagogica, trascendente, che parta dal profano e lo reintegri nel sacro. Ultimo obiettivo: il risveglio dell’uomo.
È in quest’ottica che Eliade riscrive Ifigenia: poco importa che la sua “versione” sia distante anni luce da quella di Euripide. È un mito, e come tale appartiene all’eternità – lo scrive lui stesso nella prefazione al testo del 1951 – al pari di Ifigenia, immortalata dal suo sacrificio: «La mia tomba non sarà sulla terra! L’anima di Ifigenia farà trionfare e durare un’altra cosa, molto più preziosa, di un altro mondo».
Diverso lo scenario di Uomini e pietre (ispirato al capitolo del Trattato di storia delle religioni dedicato al simbolismo delle pietre): le viscere della terra, una grotta, un percorso che allude alla discesa agli inferi, «un inabissamento fino all’ultimo livello della coscienza e della vita cosmica…». Un iter che conduce a un’iniziazione, «un rinnovamento totale dell’essere umano». Il linguaggio naufraga, la ragione rivela la propria insufficienza: spetta dunque all’arte compiere il miracolo, spingendosi «al limite ultimo della coscienza, fino al limite ultimo della vita stessa».
A cimentarsi in questa prova sono Petruş, il razionalista, indagatore della natura, lo scettico umanista, e Alexandru, il poeta, alfiere di quel misticismo romantico che nella natura non vede un oggetto da dissezionare ma la fonte dello stupore, del sacro. Ad accompagnarli troviamo l’incorporea Ariadna, anagramma di Arianna, signora del labirinto. Le due anime affrontano l’abisso, procedendo nell’oscurità di cunicoli sempre più stretti, al baluginio di una lampada di fronte a cui prendono forma e si dileguano apparizioni fantasmatiche. Ma Alexandru e Petruş sono due maschere dello stesso autore, scrive Cicortaş nella sua introduzione. Non si può prescindere da nessuno dei due. Realismo e magia non sono da contrapporre – semmai, da sintetizzare.
Una splendida immagine di questa unione è La colonna infinita, dedicata all’omonima opera di Constantin Brâncuşi (unico personaggio reale della drammaturgia di Eliade). Quella realizzata dallo scultore è «il pilastro del Cielo», simbolo del centro spirituale (analogo a quello dell’albero e della montagna) e dell’axis mundi, che unisce i piani dell’essere, terra e cielo, realtà superiori e inferiori. Ma prima di arrampicarsi sulla colonna bisogna affrontare il sottosuolo – a livello simbolico, montagna e caverna sono speculari – in completa solitudine. Perché è nella solitudine della discesa e dell’ascesa che si ripete il miracolo della nascita e della morte, delle primavere e degli autunni, delle nascite e delle morti del cosmo. A custodire questo segreto è Dedalo l’oscuro, artefice delle ali di Icaro ma anche del labirinto – un labirinto al centro del quale, ammonisce Brâncuşi, non c’è il Minotauro ma il nostro Io. È la sua presenza a guidare la discesa negli inferi, prima di giungere alla colonna, al pilastro solare.
Quella colonna che – sembra suggerire Eliade – attende anche l’uomo moderno, perso nelle spire del labirinto e incapace di vedere, oltre la notte della caverna, la luce del Sé.