Eliade e Cioran: lettere dalla fine dell’Europa
Il 22 aprile 1986, a Chicago, si spegneva Mircea Eliade. Aveva perso conoscenza due giorni prima, abbandonato sulla sua poltrona da lettura: tra le mani teneva un libro fresco di stampa, contenente un suo ritratto, tanto acuminato quanto maledettamente geniale. Il libro era Esercizi d’ammirazione, l’autore Emil Cioran, incontrato la prima volta tanti anni e altrettante vite prima, nel 1932 dall’altra parte dell’oceano, presentatogli dall’“ontologo” Constantin Noica. Reduce da una conferenza su Tagore, Eliade era l’enfant prodige della “giovane generazione” riunitasi soprattutto attorno al “Socrate romeno” Nae Ionescu, leader spirituale di un gruppo comprendente intellettuali nati all’aurora del XX secolo, molti dei quali poi disseminati in Europa e nel mondo in quella che fu una delle ultime diaspore moderne. Una delle più fruttuose, tra l’altro – come ha sottolineato anni fa Adolfo Morganti, nel fascicolo di «Antarès» dedicato all’argomento –, che sparse in giro per il mondo geni assoluti come Cioran ed Eliade ma anche, tra gli altri, Ioan Petru Culianu e Paul Celan, fino a Eugene Ionesco, Camilian Demetrescu e Vintilă Horia (secondo cui, come recita il titolo di una delle sue opere più famose, persino Dio sarebbe nato in esilio).
Tra i due quasi coetanei, separati solo da quattro anni, nacque un’amicizia che – tra altissimi e bassissimi, come spesso accade agli uomini dotati di un carattere e di una profondità spirituale – si protrasse sino alla fine dei giorni di Eliade (Cioran lo seguirà nel ’95). Monumento letterario di questo rapporto è Una segreta complicità (Adelphi), prima edizione mondiale del carteggio tra i due, da cui emerge un’incredibile complementarietà mista ad antagonismo, spesso non esente da polemiche virulente, come ricordano i due curatori, Massimo Carloni e Horia Corneliu Cicortaş, ma sempre all’insegna di quell’intesa segreta testimoniata da Cioran a Eliade il giorno di Natale del 1935:
«Benché provi per te un’infinita simpatia, a volte sento il desiderio di attaccarti, senza argomenti, senza prove e senza idee. Ogniqualvolta ho avuto l’occasione di scrivere qualcosa contro di te, il mio affetto è aumentato. Verso tutte le persone che amo nutro un sentimento così complesso, caotico e ambiguo, che solo a pensarci mi vengono le vertigini. Forse sono il solo, tra gli amici che hai, a comprendere i tuoi accessi di furore, il desiderio di sopprimere la continuità della vita».
È, in fondo, la vivida espressione di un carattere titanico, che sopravvive non solo nella lotta, ma forse proprio grazie alla lotta, incarnazione di una visione tragica del cosmo, ma al tempo stesso vitalista e sferzante (chi crede che il sentimento tragico implichi una concezione cupa e pessimista dell’esistenza dovrebbe leggersi qualcosa di Nietzsche).
Ma l’interesse di questo carteggio non è solo di ordine biografico. Oltre a registrare le tappe e le biforcazioni di due vite esemplari e paradigmatiche, il susseguirsi delle lettere – soprattutto le primissime, più interessanti da questo punto di vista – restituisce in presa diretta la cronaca di una civiltà in agonia, soffocata dall’incalzare degli eventi, caleidoscopio tutto novecentesco di tragedie, sinistro preludio della catastrofe finale, che porterà il Vecchio Mondo a uscire per sempre dal novero degli attori della Storia Mondiale. Scrive Eliade a Cioran nel novembre 1935, da Bucarest:
«Nelle ultime settimane, non ho fatto che pensare alla fine apocalittica del nostro evo. Ho la convinzione che tutto finirà molto presto, forse addirittura in trenta, quarant’anni; arte, cultura, filosofia – tutto ciò andrà al diavolo. Tutto quel che riguarda la nostra epoca (Kali-yuga) crollerà in modo apocalittico. L’Europa sta crepando – di stupidità, di tracotanza, di luciferismo, di confusione. Spero che la Romania non appartenga a questo continente che ha scoperto le scienze profane, la filosofia e l’eguaglianza sociale».
Chi volesse definire queste parole “profezie nere” non avrebbe che da considerare l’attuale stato “culturale” della nostra civiltà. Al cui confronto, si tratta di prospettive forse fin troppo edificanti.
Così come emerge la differenza tra due visioni del mondo agli antipodi riguardo a Est e Ovest, con un Cioran intenzionato a trovare un Oriente nell’Occidente, per così dire, e un Eliade spinto a muoversi in direzione contraria, senza però abbandonarsi ai facili esotismi tanto di moda, allora come oggi. Lo scrisse a Cioran il 23 aprile del ’41 da Lisbona, dove risiedeva come addetto stampa presso la Legazione di Romania (testimonianza del suo soggiorno è il magnifico Diario portoghese, edito in italiano da Jaca Book): «Vivendo di fronte all’Atlantico, mi sento sempre più attratto da geografie un tempo per me insignificanti. Cerco di trovare la mia salvezza fuori dall’Europa. Vasco de Gama arrivò pur sempre in India».
Prima che la sua immaginazione vi facesse ritorno dalle assolate rive lusitane, tra l’altro, lo storico delle religioni era stato fisicamente in India, un decennio prima. Dal 1928 al 1931, per la precisione, prima di addottorarsi nel 1933 all’Università di Bucarest. Aveva rielaborato e ampliato la sua tesi di dottorato (la cui versione originale è stata recentemente pubblicata da Edizioni Mediterranee, a cura di Cicortaş) nel volume Yoga. Saggio sulle origini della mistica indiana, uscito nel 1936 e prontamente spedito a Cioran, che così l’aveva commentato: «Leggendo lo Yoga ho capito quanto io sia europeo. A ogni passo gli contrapponevo Nietzsche. Mi sento più vicino all’ultimo dei bolscevichi o degli hitleriani di quanto lo sia alla tecnica della meditazione. Le ragioni che hanno spinto te a tornare dall’India legano me a una visione politica dell’universo».
Il loro rapporto epistolare e umano sopravvivrà a quell’Europa di cui entrambi avevano stilato l’autopsia, vivendone gli ultimi istanti come la fine di una stagione, con quell’amara consapevolezza che traspare da una nota del Diario portoghese di Eliade risalente al novembre 1942 (un anno dopo la lettera già citata) e scritta nella cittadina spagnola di Aranjuez dai mille palazzi e giardini accarezzati dal Tago: «Il palazzo rosa. Le magnolie. Accanto al palazzo, gruppi di statue di marmo. Si sente il rumore delle acque del Tago che si riversano nella cascata. Passeggiata attraverso il parco del palazzo: numerose foglie in terra. È arrivato l’autunno. Gli usignoli. Il minuscolo labirinto di arbusti. Panchine, rotonde. Siamo gli ultimi». Mi piace pensare che in quel lontano 1942, nell’occhio del ciclone, Eliade stesse implicitamente parlando di sé e del suo antico amico, lontano centinaia di chilometri ma partecipe, insieme a lui, di un destino ben più alto, che nemmeno la successiva tragedia europea riuscì a stroncare.
Dal 1945, per undici anni, i due vivranno a Parigi, dopodiché Eliade si trasferirà negli Stati Uniti, dove rimarrà sino alla fine dei suoi giorni, incontrando Cioran in Francia durante le vacanze estive. Non smetteranno mai di scriversi quei «due romeni della “giovane generazione”, gettati dalla sorte in Occidente», con alle spalle la loro martoriata terra natìa, in un rapporto destinato a superare quella Mezzanotte della Storia che fu il Novecento («Tutto è religioso, giacché la storia non è» scrisse Cioran a Eliade nel ’35, riecheggiando inconsciamente il concetto di terrore della storia che Eliade svilupperà nei suoi scritti, l’idea che al di fuori della sfera del sacro la storia si esaurisca in una collezione di mattatoi).
Proseguì eccome il loro rapporto, oltre la storia, oltre il dolore: leggendo il ritratto stilato dall’amico, pare che Eliade, poco prima di chiudere gli occhi per non riaprirli mai più, avesse sorriso.