È appena uscita la nuova edizione de La morte viola, pubblicata da il Palindromo nella collana “I Tre Sedili Deserti” (anch’essa palindroma, leggere per credere), diretta da Giuseppe Aguanno. I ventotto racconti di Gustav Meyrink antologizzati, risalenti agli anni 1901-1908, sono fondamentali per comprendere la personalità letteraria di un autore che, prima di cimentarsi con la narrativa breve, ha frequentato circoli esoterici, ne ha fondati alcuni, ha studiato e praticato discipline tradizionali d’Oriente e Occidente, non disdegnando profonde crisi esistenziali e improvvise svolte destinali. Molte delle quali, tra l’altro, presenti nella “terra di nessuno” di questi racconti, antecedenti i romanzi che schiuderanno a Meyrink l’accesso al pantheon della grande letteratura otto-novecentesca, con capolavori come Il Golem (1915), Il volto verde (1916), La notte di Valpurga (1917), Il Domenicano bianco (1921) e L’angelo della finestra d’Occidente (1927).

Una narrativa uscita su vari periodici, tra cui «Der liebe Augustin», di cui Meyrink diventa curatore nel maggio 1904: sulle sue colonne farà pubblicare August Strindberg, Verhaeren tradotto da Stefan Zweig, Maurice Maeterlinck, Dante Gabriel Rossetti, Edgar Poe… Per poi non parlare dei racconti usciti sul leggendario «Simplicissimus». Ora, chi volesse derubricare a “narrativa di serie b” la produzione meyrinkiana dovrebbe dare un’occhiata alle altre firme ospitate tra le colonne del «Simplicissimus»: si imbatterebbe nei nomi di Hermann Hesse, Knut Hamsun, Alfred Kubin, Hugo von Hofmannsthal e Rainer Maria Rilke. Tra i collaboratori figurava anche Thomas Mann, che nel suo Tonio Kröger offre un ritratto molto curioso del futuro autore de Il Golem: «Conosco un banchiere, un uomo d’affari ormai ingrigito, che possiede il dono di scrivere novelle. Di tale dono egli fa uso nelle ore di libertà, e le sue opere sono eccellenti». Eppure, «nonostante, dico “nonostante”, questa sublime disposizione, quell’uomo non è del tutto incensurato; al contrario, ha già dovuto scontare una grave pena detentiva». Fu nella cattività di una cella che Meyrink «si rese conto del suo talento» continua Mann, «e le sue esperienze di detenuto sono il tema fondamentale dei suoi lavori letterari. […] Un banchiere che scrive novelle è una rarità, non le pare?». Non fa una piega.

Usciti su rivista, i racconti vengono raccolti in varie antologie nel primo decennio del secolo scorso, per poi confluire, nel 1913, nei tre volumi di Des deutschen Spiessers Wunderhorn, che sono e restano il principale punto di riferimento della sua narrativa breve, a cui va aggiunta solo l’antologia Fledermäuse, uscita nel 1916, che contiene sette storie. Per quanto siano state identificate novelle precedenti (è il caso di Tiefseefische, risalente al 1897), il vero “battesimo editoriale” di Meyrink ha luogo agli inizi del secolo: è il racconto Il soldato bollente (primo de La morte viola), uscito sulle colonne del «Simplicissimus» il 29 ottobre 1901. Meyrink ha raccontato più volte come giunse a scriverlo e a pubblicarlo, legando il tutto a uno scrittore e a una estate. L’estate è quella del 1901, lo scrittore è Oskar A. H. Schmitz, incontrato al Sanatorio Lahmann di Dresda. Poeta e amico di Alfred Kubin (di cui ha sposato la sorella Hedwig), Schmitz ascolta rapito il futuro scrittore, il quale gli racconta alcune delle sue “peripezie occulte” (che hanno per protagonisti medium, santoni e società segrete). Al che lo scrittore lo interrompe, chiedendogli semplicemente: «Perché non ne scrive?».

«E come si fa?» ribatte Meyrink.

«Scriva tutto così, semplicemente come parla».

Segue la stesura de Il soldato bollente, spedito al «Simplicissimus» (sarà lo stesso Schmitz a dargli l’indirizzo). Un insieme di casualità? Forse. Ma non secondo Meyrink: questi fatti rappresentano per lui la riaccensione di un fuoco ben più antico, il coronamento di un percorso già intrapreso. Il fine? Pensare per immagini, come annoterà nel lungo scritto autobiografico La metamorfosi del sangue, risalente agli ultimi anni della sua vita terrena e appena pubblicato in italiano per i tipi di Bietti: «Detto per inciso, la facoltà della visione interiore […] fu la prima svolta del mio destino, il quale con uno strattone, per così dire, trasformò un commerciante in uno scrittore: la mia fantasia divenne concreta. Se prima pensavo a parole, da allora fui in grado di farlo per immagini. E quelle immagini erano tangibili, cento volte più tangibili e reali di qualsiasi oggetto corporeo».

Per la cronaca, le “coincidenze” che lo condussero a pubblicare non si esaurirono nell’incontro con Schmitz. Alfred Schmid Noerr, amico dello scrittore austriaco, racconta quanto accadde allorché il manoscritto giunse alla redazione del «Simplicissimus», in un plico che recava come mittente “Gustav Meyrink” – non compariva il vero cognome dell’autore, Meyer.

Quel giorno era prevista una riunione di redazione, non particolarmente stimolante – come tutte le riunioni di redazione, d’altronde.

Ad ogni modo fu Geheeb, uno degli assistenti dell’editore, ad aprire la busta. Diede una scorsa veloce alle pagine e sbuffò: «Questa roba è stata scritta da un pazzo. Peccato, alcune cose funzionano. Ma tant’è». E gettò il tutto nel cestino.

Quello era il primo racconto spedito da Meyrink; se non fosse stato accettato, probabilmente non ne avrebbe scritti altri. Chissà come sarebbero andate le cose se nel frattempo non fosse giunto il caporedattore, Ludwig Thoma. «Taciturno, avvolto nel fumo della sua pipa» ricorda Noerr, «si accomodò sulla sua sedia e, piuttosto annoiato dai toni della riunione, si mise a rovistare con la punta del suo bastone da passeggio nel cestino della carta straccia».

«Cos’abbiamo qui?» chiese, incuriosito, non appena rinvenne il dattiloscritto.

«La deposizione di un folle» fu la risposta di Geheeb.

«Un folle? Forse. Ma geniale» rispose Thoma, dopo aver dato una rapida occhiata. «Sì, sì, Geheeb, genio e follia. Tenga a mente questo nome: Meyrink. E gli scriva subito chiedendogli se ha altra roba del genere. La pubblicheremo immediatamente».

Come si diceva, l’esordio letterario di un autore comporta spesso un combinato disposto di coincidenze. Ciò vale ancora di più per uno come Meyrink, che assegnò a qualsiasi evento della propria vita un significato altro, inscritto nelle regole che disciplinano i rapporti tra uomo e cosmo.

A più di un secolo da quei fatti, è proprio Il soldato bollente ad aprire La morte viola, di nuovo a disposizione dei lettori italiani. Che dire? Forse dobbiamo alla noia di una redazione, all’aurora del secolo scorso, la pubblicazione di questo e altri racconti di Meyrink. Forse fu quella la via che il destino scelse per concludere la metamorfosi letteraria ed esistenziale di uno dei più grandi Maestri del Fantastico.

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