Sanatorio disciplinare. L’Occidente di Eduard Limonov
Come muore una civiltà? In quale momento cessa di produrre forme ed esce dalla Storia? Nel monumentale Il tramonto dell’Occidente, citato da molti ma letto da pochissimi, Oswald Spengler ha le idee piuttosto chiare. Ogni cultura si articola infatti in due fasi: la prima è la “civiltà”, cui segue la “civilizzazione”. Una è organica, orientata verso l’alto, gerarchica e differenziata; l’altra è inorganica, livellatrice, nemica delle differenze, egualitaria e meccanica. È nel passaggio tra le due fasi che la “personalità” di una civiltà incontra una battuta d’arresto. Nei decenni successivi, il testo di Spengler ha fatto scuola, dando vita a riprese e variazioni sul tema. Impossibile quantificarle, ma un paio di esempi possiamo farli: a parte il libro di Huntington Lo scontro delle civiltà e la nuova costruzione dell’ordine mondiale, del 1996, contrapposto alla sepolcrale “fine della storia” di Francis Fukuyama, un’interpretazione molto interessante risale a quindici anni prima. Esce dalla penna dell’“elettrone libero” Guillaume Faye ne Il sistema per uccidere i popoli, di recente ripubblicato da Aga, il cui senso è tutto racchiuso nel titolo: secondo il brillante teorico dell’archeofuturismo, la “civilizzazione” evocata da Spengler a modo suo è ancora “viva”, pensata a partire da ciò che è organico, anche se ex negativo. L’Occidente attuale è qualcosa di ben diverso: un sistema tentacolare e meccanico, nemico dei popoli, della Storia e delle tradizioni. Se un tempo era possibile decapitare un sovrano e contemporaneamente uno Stato, il mondo del “sistema”, idra dalle mille teste, è retto da burocrati intercambiabili, pedine impersonali di un meccanismo mortifero.
Ecco, è un’immagine del genere ad affacciarsi in una recente pubblicazione, firmata da un peso massimo del pensiero non-conformista degli ultimi tempi. Stiamo parlando di Grande ospizio occidentale di Eduard Limonov, appena uscito per Bietti nella curatela di Andrea Lombardi. È forse il testo più metapolitico dell’autore immortalato nel libro di Emmanuel Carrère (che, per la cronaca, il dissidente russo ha sempre detestato cordialmente), risalente al tempo del suo tormentato sodalizio con Aleksandr Dugin, conclusosi con una violenta rottura tutta implicita nelle premesse. Il punk contro il filosofo, il fanatico dei Sex Pistols contro lo studioso di alchimia… I loro geni, combinati, diedero vita al Movimento Nazional-Bolscevico, la cui storia attende ancora di essere raccontata nel nostro Paese, opera di due temperamenti affini ma irrimediabilmente diversi. Ebbene, quell’esperienza ha generato due libri altrettanto complementari, entrambi usciti anche in Italia: I templari del proletariato di Dugin (Aga, 2021) e, appunto, Grande ospizio occidentale dell’amico-nemico Limonov (testo che arruolò tra i “nazbol” il terzo moschettiere, Egor Letov, leader dei Graždanskaja Oborona, insieme a centinaia di fan del suo gruppo).
Il libro esce alla fine degli anni Ottanta, mentre la storia disintegra il bipolarismo della Guerra Fredda, intercettando tutta una serie di tendenze allora presenti in forma aurorale e oggi del tutto dispiegate. È una delle ragioni per rileggere autori del genere, la cui penna, non ancora viziata dallo spirito dei tempi, riusciva a percepire l’estraneità di correnti analoghe, manifestando salutari contrappesi esistenziali e ideali impossibili anche solo da immaginare in momenti successivi. Certo è che, come scrive Alain de Benoist nella sua introduzione all’edizione italiana, «se allora avesse potuto vedere i deliri a cui hanno portato oggi la teoria del gender, la cancel culture e il wokismo, probabilmente avrebbe scritto che l’intero Occidente è diventato una sorta di ospedale psichiatrico».
Arriviamo così al cuore del libro. Può esserci qualcosa di peggio, si chiede Limonov, della violenza di Stato che nel XX secolo ha mietuto milioni e milioni di vittime? La risposta è affermativa. Più liberticida del cappio totalitario è l’oppressione soft esercitata dai regimi liberisti odierni. Questi non trattano i propri sottoposti come sudditi o schiavi, ma come pazienti bisognosi di cure, rieducabili a piacimento. Più che caserme sono ospedali – Ospizi, appunto – dove regna una mortale tranquillità, basata sulla sistematica repressione di ogni dissenso. Un gigantesco esperimento di ingegneria sociale, attuato su scala planetaria con il consenso dei “malati”. Sono obitori dello spirito, buonisti e revisionisti: «Un regime morbido non sa che farsene di uniformi nere, manganelli e tortura. Ha un arsenale diverso: la falsa idea del benessere materiale, la minaccia della disoccupazione e della crisi, il timore e la vergogna di essere più poveri – e, quindi, meno buoni – dei propri vicini». Il modello non è una cella d’isolamento presidiata da sadici secondini, ma un ospedale pieno di amorevoli infermieri – quanto al tipo umano che vi si alleva, non è un prigioniero ma un malato docile, che va difeso anzitutto da sé stesso nel corso di quella che si rivela essere una vita a credito condita da sonniferi e tranquillanti. Uno scenario simile a quello del celeberrimo Qualcuno volò sul nido del cuculo, del 1975.
La violenza proveniente dal passato o dai territori esterni all’Ospizio, mostrata di continuo, colpisce il paziente con un unico scopo: anestetizzarne la facoltà critica, persuaderlo che quello in cui vive è il migliore dei mondi possibili. Ah, quindi contestate l’Ospizio? Volete che ritornino i gulag? O i lager? E la fame in Africa? Le guerre civili? Guardate cosa accade quando i malati smettono di dirsi tali… Anestetizzate dai media, matematizzate dai talk-show e aggregate in percentuali, le masse inebetite partecipano volentieri alla propria stessa oppressione. Non sono più schiacciate da Regimi o Partiti Unici, scomparsi solo e soltanto perché ormai superflui. Se non c’è un poliziotto a controllarti, sembra suggerirci Limonov, è perché il poliziotto sei tu.
Il modello dell’Ospizio trascende l’opposizione Est-Ovest, manifestandosi come un nuovo stile, trasversale e onnipervasivo, imposto su scala planetaria. Inutile architettare piani di fuga: se da una prigione è possibile evadere, si esce da un ospizio solo per entrare in un altro. America o Russia, poco cambia. Impossibile non ricordare quanto disse Solgenitsin agli studenti di Harward: «Vengo da un Paese in cui non si poteva dire nulla, e scopro un mondo in cui si può dire tutto senza che ciò serva a nulla».
Il mondo dell’Ospizio ha inoltre il fastidioso vizio di irregimentare qualsiasi cosa: movimenti antagonisti, detti e contraddetti, tesi e antitesi… È molto probabile che se a una determinata corrente, per quanto bislacca e singolare, viene dato spazio, ciò derivi dal suo aderire e confermare i Diktat dell’Ospizio – magari ad insaputa dei suoi stessi sostenitori. E che quindi i “contestatori in prima serata” siano solo le truppe di rincalzo dell’Ospizio stesso, buoni a puntellarlo in caso di una crisi del consenso. E non è tutto: avendo un’Amministrazione incarnata non più da tetragoni dittatori, ma da creativi e sbarazzini manager, l’Ospizio ama piegare le minoranze e le “controculture” alla propria causa.
«La violenza non ricorre più a manganellate o uniformi nere, ma indossa i panni di un simpatico ometto con gli occhiali. Costui potrà anche unirsi al coro dei giovani che canticchiano Revolution o I shot the sheriff di Bob Marley».
Il problema, però, è che allo sceriffo poi nessuno spara. E se è vero che la Rivoluzione non è un pranzo di gala, non è nemmeno una jam session.
Gli spauracchi dei Malati e dell’Amministrazione sono gli Agitati, quelli che non vogliono saperne di allinearsi agli altri pazienti divorati dalle tasse, dalle rate della macchina o della casa, da mogli e amanti. Si alzano e girano per le corsie, immaginando un mondo diverso. Alcuni – i casi più gravi – sostengono di non essere nemmeno malati. Vogliono uscire. Ma per andare dove?
Un tempo repressi brutalmente, nell’Ospizio subiscono un trattamento un po’ diverso. Vengono isolati, criminalizzati oppure esposti al pubblico ludibrio di fronte agli altri Malati. Spesso non fanno una bella fine: Che Guevara, Pasolini, Mishima, Gheddafi, Baader-Meinhof… L’obiettivo finale è spingerli all’autoisolamento, inquinare il loro stesso immaginario, spingerli a una vergognosa resa di fronte a loro stessi, fare del loro slancio un male incurabile. Non è escluso che I parassiti della mente di Colin Wilson, nonché il suo Outsider, più che geniali romanzi siano anticipazioni della mortifera calma dell’Ospizio. Il punto, secondo Limonov, è che il Malato Agitato, accolto tra lo sdegno e la compassione, è l’ultimo avatar di ciò che un tempo fu chiamato “eroismo”. «Da decenni gli eroi sono tanto rari quanto un lupo in una foresta dei Vosgi. Mentre viene imposto un concetto di vita “prospera” per il maggior numero possibile di esseri umani, i Malati e l’Amministrazione si mettono a eliminare sistematicamente i Malati Agitati, ossia gli eroi».
Non ancora rieducato ai vangeli democratico-progressisti, l’Agitato non riesce a tollerare cose come i “diritti dell’uomo”, né un egualitarismo che nasconde una generale sottomissione, il mostruoso culto del Popolo, l’ipnosi collettiva esercitata dalla televisione (chissà cosa avrebbe detto vedendo smartphone e affini), il culto delle vittime, un continuo revisionismo storico, la venerazione dei vinti sui vincitori… Sarebbe sempre bene tenere in tasca libri del genere per difendersi dal Malato che è in noi. O dallo sceriffo, se preferite. Lo sceriffo che potremmo essere, nel peggiore degli inferni possibili. E, per la cronaca, Grande ospizio occidentale – insieme a tutti gli altri libri di Limonov – oggi è vietato sia in Russia sia in Ucraina.