Propaganda!
«È tutta propaganda!», «Lei è un propagandista!». Seguite da un invariabile «pagato da…», non è un caso che espressioni del genere volino a destra e a manca in sincrono con l’ossessiva polarizzazione del “dibattito pubblico” intorno ad alcune questioni, succedutesi, da un giorno all’altro, senza soluzione di continuità – e una ragione c’è, come vedremo. Usato come anatema per squalificare l’avversario, il termine ha finito col perdere i propri connotati, diventando una specie di passe-partout. Fa un po’ di chiarezza sulla questione uno studio dato alle stampe nel 1962 dal sociologo francese Jacques Ellul, pubblicato di recente in traduzione italiana da Piano B, con il titolo Propaganda. Un volume utilissimo sia per tornare a riflettere su questa nozione, sia per capire cosa propaganda, in senso stretto, non è. La definizione è piuttosto lineare: una manovra congiunta, realizzata con il concorso di svariati mezzi, volta a manipolare i simboli psicologici dell’individuo al di sotto della sua soglia coscienziale. È un aspetto essenziale: si tratta di uno strumento la cui azione è prerazionale, “occulta” come i persuasori cui Vance Packard ha dedicato un celebre studio, fondandosi sulla genesi preconscia di bisogni e aspettative. Eppure, per quanto semplice, basta a squalificare molti degli odierni usi del termine incriminato: tanto per fare un esempio, dire la propria in un talk-show non è, in senso stretto, propaganda.
Può essere di vari tipi e comportare tecniche diversificate: l’azione psicologica, finalizzata a mutare la visione del mondo dei propri connazionali, oppure una guerra psicologica per demolire il morale e l’ideologia degli avversari; può servirsi del lavaggio del cervello, trasformando un nemico in amico, così come basarsi sulle cosiddette public o human relations, spingendo l’individuo a far corpo con una determinata società, accettandone in toto usi e costumi, riducendo progressivamente lo scarto che lo rende un essere indipendente. Si tratta, riassume Ellul, dell’«insieme dei metodi utilizzati da un gruppo organizzato, in vista di far partecipare attivamente o passivamente una massa di individui unificati attraverso delle manipolazioni psicologiche e inquadrati in un’organizzazione».
C’è poi un ingrediente indispensabile. Per garantirsi un certo margine di successo, il buon propagandista non deve credere in ciò che vende. Dev’essere scientifico, chirurgico. In caso contrario, è molto probabile che sia solo il megafono – magari inconsapevole – di un’altra propaganda, più “occulta” e meglio strutturata della sua. «Un propagandista che si lascia coinvolgere dalla sua propaganda ha la stessa debolezza di un magistrato che giudica un membro della propria famiglia».
Lo scopo è creare aree di interesse capaci di mobilitare le masse: lo stesso modus operandi che emerge nella cornice narrativa de Il montaggio di Vladimir Volkoff, un caleidoscopio di spionaggio e contro-spionaggio, dove non è il reale a determinare la narrazione ma il contrario. Nel romanzo, appena ripubblicato da Settecolori, la “realtà di tutti giorni” non è un dato a sé stante, ma la somma del conflitto sotterraneo tra narrazioni e contro-narrazioni politiche. Al centro c’è «l’agente d’influenza», lo stregone dell’informazione, «colui che fa propaganda allo stato puro, mai in favore, sempre contro, senz’altro scopo che dare gioco, allentare, tutto scollare, sciogliere, disfare, disserrare». Ha come motto le parole del Sun Tzu de L’arte della guerra: «Mai presentare una forma che possa essere definita chiaramente. Così facendo, sfuggirai alle indiscrezioni delle spie più perspicaci, e gli intelletti più sagaci non potranno architettare un piano contro di te».
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Torniamo per un istante a Ellul, che nella sua dettagliata esposizione stila un lungo inventario delle caratteristiche che rendono efficace la propaganda. In primis, il fatto che funzioni solo all’interno di un determinato contesto, risultando del tutto inutile in un altro. In secondo luogo – e questo è fondamentale, soprattutto rispetto all’uso che si fa oggi del termine –, una tecnica di questo tipo ha come condizione necessaria l’utilizzo simultaneo di un gran numero di mezzi di comunicazione. Ambisce a essere totalizzante, arruolando televisione, radio, stampa, opinion leader… Se non avete a disposizione almeno due o tre di questi canali, non siete dei buoni disinformatori. E, di conseguenza, se qualcuno vi accusa di essere dei propagandisti per aver fatto un post su Facebook, magari rilanciato da due o tre decine di persone, ci sono buone probabilità che il propagandista sia lui.
Dev’essere continua: ogni interruzione è una fessura informativa in cui potrebbe insinuarsi qualcos’altro, che finirebbe per mettere in discussione il messaggio trasmesso. Gli input che diffonde urbi et orbi sono semplificati, per ragioni più pragmatiche che teoriche: mirando a irregimentare l’esistente, ha bisogno di pochi principi che siano chiari e immediati, adattabili a tutto. Messaggi che si rivolgono simultaneamente all’individuo e alla massa: ancora una volta, privilegiare un polo rispetto all’altro produrrebbe pericolose discontinuità entro cui potrebbe insinuarsi una voce difforme, un messaggio alternativo che farebbe crollare tutto il castello di carta. D’altronde, la massa amplifica le tendenze dei singoli che la compongono, i quali collaborano, e ben volentieri. L’obiettivo è la creazione di un mito mobilitante, una riserva di energia capace di galvanizzare i destinatari, estendendosi a tutte le loro facoltà. Una visione tanto semplificata quanto monolitica, tale da escludere ogni divergenza, diretta alla sfera pre-ideologica.
È un distinguo basilare: miti moderni come Progresso, Uguaglianza, Democrazia e Lavoro non sono in senso stretto ideologie ma ne condizionano la nascita e gli sviluppi, e non di rado appaiono in impianti teoricamente contrapposti, tipo comunismo e capitalismo, come hanno riconosciuto nel corso dei decenni teorici di ogni latitudine intellettuale. Per decifrare l’operato della propaganda, insomma, più che affidarsi alle ricette di sociologi e psicologi, è meglio tornare alla nozione classica di “mito”, dispositivo che racconta le origini e il destino di un popolo, aggregandone le componenti. «Il mito ha un potenziale di attivazione nella persona. Mentre l’ideologia è passiva», scrive Ellul, «il mito spinge l’individuo all’azione. Ma entrambi hanno in comune il fatto di essere fenomeni collettivi, e che la loro forza di persuasione risiede nel potere collettivo di partecipazione».
Elementi del genere non vanno valutati in base a qualsivoglia “valore di verità”, ma sempre e solo rispetto all’effetto che riescono a sortire, al piano di realtà che intendono suscitare. Che siano autentici o inautentici sarà pure un problema, ma di certo non per il propagandista. «Non c’è da discutere per sapere se l’ideologia marxista della storia sia più vera di un’altra, o se la dottrina razzista sia vera» ribadisce Ellul. Basta solo che siano in grado di «fornire parole d’ordine efficaci, capaci di mobilitare hic et nunc le folle».
Ad ogni modo, è e rimane un’alterazione simbolica dell’immaginario, alla luce della quale amici e nemici, connazionali e stranieri, diventano frammenti di un potere narrato e quindi esercitato. Una tecnica dal sapore quasi magico, come aveva scritto lo storico delle religioni Ioan Petru Culianu, paragonando demagoghi e pubblicitari ai maghi rinascimentali, che manipolano il reale agendo sul piano sottile e che, naturalmente, come i propagandisti raccontati da Ellul, si mantengono sempre immuni alla manipolazione. Un paragone azzardato? Solo fino a un certo punto, se leggiamo il profilo dell’agente d’influenza tracciato da Volkoff: «Aveva trascorso la vita a falsificare la realtà del mondo. Aveva un grado militare, aveva servito in una sorta di polizia, ma per vocazione era uno stregone».
D’altronde, pubblicando l’edizione francese di Eros e magia nel Rinascimento, Culianu inserisce precisi riferimenti all’utilizzo politico di un sapere del genere: «La funzione del manipolatore di Giordano Bruno è stata presa in carico dallo Stato, nuovo “mago integrale” incaricatosi di produrre gli strumenti ideologici necessari per ottenere una società uniforme». E si chiede: «Oggi lo Stato occidentale è un vero mago oppure un apprendista stregone che mobilita forze oscure e incontrollabili?». La domanda rimane senza risposta, ma la conclusione è inevitabile: «Il futuro gli appartiene; la costrizione attraverso la forza dovrà inginocchiarsi di fronte ai sottili processi della magia, scienza del passato, del presente e del futuro».
Realizzando la traduzione italiana di quello che resta un manuale indispensabile per capire le logiche del mondo contemporaneo, il brillante allievo di Mircea Eliade, freddato alla Divinity School dell’Università di Chicago il 21 maggio 1991, casserà queste parole.
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Ma qual è il target ideale della narrazione? Ecco la domanda che si pone il propagandista, tenuto a conoscere i propri destinatari meglio di loro stessi. Ellul traccia un ritratto esaustivo del bersaglio perfetto: è l’uomo-massa, un debole medio-colto che si autorappresenta come onnipotente, influenzabile ma sedicente autonomo, omologato ma fiero della propria unicità e irripetibilità. A differenza di quanto sentiamo spesso dire, un uomo del genere non è vittima della propaganda, ma un attore che partecipa volentieri al gioco, offrendosi quale generoso ripetitore. È lui stesso a scegliersi il tessuto narrativo che preferisce, scartandolo non appena ne ha abbastanza – ma solo per abbeverarsi a un altro. Su quotidiani e telegiornali, ama vedere riprodotte le proprie opinioni. Non appena qualcosa interrompe tale rispecchiamento – una rubrica poco intonata, un articolo divergente –, cambia parrocchia, ansioso di individuare un altro guru, un’altra chiesa.
È ora di farla finita con la vittimizzazione dei nostri concittadini, prede indifese della disinformazione. «Se la propaganda funziona è perché risponde a un bisogno posto nell’individuo» scrive Ellul. «Egli invoca l’azione psicologica, e non solo le si presta, ma trova in essa la propria soddisfazione». È un complice – spesso incosciente, forse addirittura in buona fede – del flusso di informazioni, orchestrato da altri, e della sua diffusione. Ne ha bisogno, non riesce a farne a meno.
«Non esiste un propagandista cattivo che crea mezzi per possedere il cittadino innocente. Esiste un cittadino che invoca propaganda dal profondo del suo essere, e un propagandista che risponde a questo appello».
Schierato altezzosamente o ingenuamente contro la “decadenza dell’informazione” (diviso tra i «non c’è più il giornalismo di una volta…» e i «non si sa più a cosa credere…»), non ha bisogno di “punti di vista” ma chiede solo e soltanto prese di posizione nette, slogan. E, per la cronaca, al contrario di quanto viene ripetuto fino allo sfinimento, non è la “cultura” – qualunque cosa voglia dire questo termine – a sottrarci alle spire della propaganda.
«La propaganda stessa è la cultura, l’istruzione delle masse. È all’interno e grazie alla propaganda che queste hanno accesso all’economia, alla politica, all’arte, alla letteratura».
L’incremento dell’istruzione, in quest’analisi, non è un’impresa filantropica ma la genesi di un legame sempre più stretto tra chi esercita il potere e chi lo subisce – legame che è la condicio sine qua non della propaganda stessa. E, qualora non fosse chiaro, il sociologo precisa: «Quanto più misero e ignorante è l’individuo, tanto più facilmente può essere lanciato in un’azione di rivolta. Ma per andare oltre, per fare un lavoro di propaganda profondo, gli si deve dare più cultura». Anche in questo caso, se qualcuno vi dice che è con la cultura che si guarisce dalla disinformazione, è molto probabile che il propagandista sia lui.
Smettere di leggere, quindi? Non necessariamente. Il punto, semmai, è un altro: più che precipitarsi in libreria alla ricerca dei libri discussi in un talk-show o raccomandati da qualche influencer, sarebbe ora di cominciare a capire cosa si sta leggendo e la misura in cui ciò ci ancora a un contesto, stabilendo un legame indissolubile che è la chiave di volta di una propaganda fatta bene. Per quest’ordine di motivi, a garantirsi una relativa immunità dal mondo dell’informazione non è il plurilaureato, né il frequentatore dei cineforum, ma chi vi attinge in modo discontinuo: «Il montanaro, il forestiero, isolati, che hanno solamente contatti episodici con la società attraverso il mercato del villaggio, sono poco sensibili alla propaganda», un apparato che, «nel silenzio della montagna o della foresta, perde ben presto il suo impatto».
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I teorici del postmodernismo annunciavano a spron battuto la fine delle grandi narrazioni – leggasi: politiche – a profitto di altre, più deboli. Erano ancora, fondamentalmente, degli ottimisti. La verità è che i titani del XX secolo sono crollati cedendo il posto a una narrazione unica, ancora più invadente e onnipervasiva, che oggi accomuna Paesi remoti e, al loro interno, correnti contrapposte. Una somma di Diktat infrangibili, di cui ogni pensiero che aspiri a una qualche visibilità può essere solo una variazione sul tema.
Una visione delle cose che fa del revisionismo, come ha notato Eduard Limonov nel suo profetico Grande Ospizio Occidentale (Bietti, 2023), una prassi consolidata. Anche in questo caso, la propaganda è centrale, riscrivendo continuamente la storia ad uso e consumo del “qui e ora”. Lo scopo non è “sensibilizzare al passato”, come spesso si ripete, ma esorcizzarlo in quanto tale, nella sua diversità e alterità, in nome di un presentismo assoluto. Sprovvisto di legami con la propria storia, privo delle strutture che il radicamento a un tessuto più ampio può garantire, l’individuo atomizzato è pronto a subire, senza intermediazione, il fuoco della propaganda. È l’inveramento del precetto orwelliano – che pure Limonov nel suo libro fa a pezzi – secondo cui chi controlla il presente controlla il passato, e quindi il futuro. Il procedimento è inesorabile e piuttosto grossolano: non intende dimostrare alcunché, ma donare una visione del mondo prêt-à-porter mai sfiorata dall’ombra di un’alternativa. Inutile dire come il mito del Progresso giochi un ruolo preponderante, assegnando patentini di accettabilità a quelle epoche o civiltà che con il nostro mondo hanno una continuità. In caso contrario, si può sempre gridare all’oscurantismo.
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Molti dei procedimenti citati sono riassunti nel Vademecum dell’agente d’influenza de Il montaggio, che condensa le tecniche di disinformazione praticate dall’Unione Sovietica e dai suoi vassalli, ma poi estese a buona parte delle cosiddette “democrazie occidentali”. Il precetto di base consiste nel non operare mai frontalmente, ma sempre attraverso una catena di intermediari. Tra le tecniche più usate ci sono la contro-verità non verificabile e il miscuglio vero-falso: «Un solo fatto vero e controllabile ne fa passare molti che non sono né l’uno né l’altro». Oltre alla sistematica deformazione del vero, abbiamo la modifica del contesto e la sfumatura («Anneghi il fatto vero in una massa di altre informazioni»), ma anche le verità selezionate, cioè l’idea di concentrarsi su particolari attendibili ma incompleti. Sempre con lo stesso scopo: disintegrare l’avversario non frontalmente ma screditandolo, scegliendo un campo di scontro diverso da quello su cui questi combatte, per poi farlo crollare dall’interno.
Come indurre un Paese all’implosione? Qui le pagine di Volkoff si avvicinano a quelle di Ellul. Anzitutto, conoscere alla perfezione la società su cui si intende agire, mapparne le linee di forza, sondarne le faglie interne. Praticare un sistematico “entrismo”, disarticolando le strutture tradizionali che potrebbero proteggere il popolo: «Farò credere ai membri più deboli dei gruppi sociali che essi sono stati dannosi nel passato, e lo sono ancora; dimostrerò che questi gruppi sono inutili, parassitari, sono illusioni e non realtà. Riuscirò così a scavare un fossato fra figli e genitori, fra lavoratori e datori di lavoro, fra la truppa e il capo». Dopodiché, dissolti i corpi intermedi, attaccare frontalmente lo Stato avversario, attribuendogli ogni nefandezza. Se è autoritario, risponderà con repressioni, regalando al propagandista una sfilza di martiri utile a ulteriori criminalizzazioni; se è liberale, crollerà ancora più in fretta, rivelandosi agli occhi dell’opinione pubblica vulnerabile a qualsivoglia attacco esterno. La ciliegina sulla torta è la paralisi del popolo stesso. Come il propagandista di Ellul, l’agente di Volkoff fa leva alternativamente sulla massa e sulle sue componenti: «Talvolta è possibile trasformare una maggioranza in una gigantesca società sportiva: alzate la gamba destra, e loro l’alzano; alzate la sinistra, e loro l’alzano; alzate tutte le due gambe, e loro si ritrovano col sedere in terra. Talvolta, invece, bisogna frazionare la popolazione in milioni d’individui; ogni cittadino si trova solo di fronte alla maschera di Gorgone che gli viene presentata, si sente disarmato e pronto a capitolare».
Per la cronaca, c’è un’ultima tattica, chiamata Fil di Ferro, basata sull’idea di cavalcare finte contrapposizioni, intaccandole, polarizzando artificialmente il dibattito in due o più correnti per far passare un terzo messaggio – quello, appunto, oggetto della disinformazione. Le parole dall’agente de Il montaggio sono più che eloquenti:
«Un giorno, quand’ero bambino, mio padre mi condusse alla fiera. Ci fermammo davanti a una lotteria: una grande ruota divisa in settori rossi e blu. Si puntava sull’uno o sull’altro, e si poteva vincere un pesce in un vaso. Io desideravo il pesce e mio padre trovò nelle sue tasche il necessario per due puntate: “Tu punterai sul rosso e io sul blu. Così siamo sicuri di vincere”. Il pesce costava meno del valore delle due puntate, probabilmente anche meno di una. Nonostante ciò, mi domandavo se la nostra manovra fosse proprio onesta. Ma dissi a mio padre: “Va bene”. Fu lui a vincere il pesce, e me lo diede. Io ero contento».
I pesci, naturalmente, siamo noi, con le nostre azioni e i nostri abiti di risposta.
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Attraverso i procedimenti citati, si stabilisce così un rapporto circolare tra propaganda e azione. Se la prima favorisce la seconda, costituendone lo sfondo necessario, la stessa azione riconferma e legittima il fuoco della propaganda, amplificandone la dimensione totalizzante. In assenza di questa doppia implicazione, è impossibile parlare di propaganda in senso vero e proprio – e questo emerge, paradossalmente, quando la campagna (dis)informativa viene meno, avendo raggiunto il proprio scopo. A quel punto, prive della loro antica ragion d’essere, le azioni compiute dagli individui si rivelano tutt’a un tratto insensate. Ne deriva un senso di smarrimento, raccontato da Ellul:
«Con il cessare della propaganda, l’individuo perde la sua giustificazione, non ha più fiducia in sé stesso, e si sente sotto accusa, in quanto, nelle azioni che compiva sotto l’effetto della propaganda, può aver compiuto atti di cui dubita, o di cui si pente. Sprofonda nella disperazione, quando la propaganda non gli dà più la certezza di essere dalla parte del giusto e della ragione».
Svanito l’incanto, passata la sbornia narrativa, non rimane che fare una cosa: cominciare con un’altra opera di disinformazione, senza interruzione, sostituendo una finzione a un’altra. Vi ricorda qualcosa?
D’altronde, la propaganda – che, come già detto, non può permettersi il lusso di essere discontinua – crea il bisogno della propaganda, la necessità di un universo accomodante, capace di assegnare a ogni gesto una direzione e un significato. È quasi impossibile liberarsi da questo impulso, gravido di danni antropologici che non è spesso semplice arginare in tempi brevi: «Quello che va perso nell’individuo non è mai facile da ricostruire, da far rinascere. Una volta che il giudizio personale e lo spirito critico sono spariti, atrofizzati, non si deve pensare che sia possibile poterli ricreare in modo semplice. Ci vorranno anni per far riemergere la facoltà scomparsa: anni di educazione, intellettuale e spirituale. La persona oggetto di propaganda si precipiterà immediatamente su un’altra propaganda che le risparmierà la fatica di ritrovarsi da sola a dover esercitare il proprio giudizio».
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Nel corso di questa breve ricognizione tra libri vecchi e nuovi, siamo partiti da una definizione di “propaganda”, finendo per imbatterci nell’autopsia di una civiltà – la nostra. Sfogliando le pagine di Ellul e seguendo le avventure degli agenti de Il montaggio, è facile capire come l’attività un tempo affidata ad agenti e spie, staccatasi dalla propria matrice, abbia finito per trasformarsi in uno stile adottato su scala globale, inveramento del monito lanciato dall’agente sovietico immortalato da Volkoff:
«Siamo una fabbrica di verità. Possono fucilarci, ma non possono fare più nulla contro le immagini che noi abbiamo già creato. Abbiamo pianificato il XXI secolo. Anche senza di noi, non potranno fare altro che seguire i nostri segnali di pista, poiché non sapranno mai qual è la menzogna finale. Non usciranno mai dal nostro labirinto».