Elezioni a Roma: parola d’ordine uscire dall’impasse

E da questo pasticciaccio brutto

Una città sporca, invasa dai topi, dove pure gli escrementi degli uccelli che invadono il lungotevere diventano una calamità, dove è possibile vivere per trent’anni al centro storico in un appartamento del Comune per 30 euro al mese. Stiamo parlando di Roma.

Roma è la capitale politica ma è anche la capitale della storia, della cultura, della religione, Roma è il nostro biglietto da visita nel mondo non merita di essere diventata il simbolo del malaffare e dell’ ingovernabilità. Roma grida vendettta. Dopo oltre un ventennio, da Rutelli ad oggi – con una breve parentesi della giunta Alemanno – la situazione è andata sempre peggiorando. Così come la credibilità del centrosinistra romano, diviso al suo interno, messo a dura prova dal fallimento della giunta Marino e dal coinvolgimento massiccio nell’inchiesta Mafia Capitale; come ha testimoniato del resto il flop delle primarie, vinte da Roberto Giachetti, come da pronostici, ma con un’ affluenza ai seggi scarsissima.
Ma se Atene piange, Sparta non ride.
Giachetti, non sarebbe un avversario imbattibile, così come non lo sarebbe la candidata del Movimento 5 Stelle Virginia Raggi, che non è certo Alessandro Di Battista, e il centrodestra unito potrebbe avere ancora la speranza di affermarsi se solo anteponesse personalismi e veti incrociati a favore del reale interesse dei cittadini e della città. Il desolante teatrino che si è consumato nelle ultime settimane ha dato piuttosto l’impressione che sulla pelle dei romani si stiano consumando vendette private, lotte interne e ambizioni personali sia all’interno degli schieramenti della coalizione, sia fra gli aspiranti primi cittadini in campo. Che non perdono occasione per lanciarsi stilettate e accuse reciproche. Proviamo a fare un breve riassunto delle “puntate precedenti”, partendo da un dato di fatto: questo week end nella Capitale sono state ufficializzate le candidature di Guido Bertolaso, Francesco Storace e Alfio Marchini, che pur presentandosi come estraneo alle logiche di schieramento destra/sinistra, è stato comunque per mesi in testa all’indice di gradimento di Berlusconi: era lui l’uomo nuovo su cui puntare e su cui si è scagliato il primo grande veto, quello di Giorgia Meloni. Di fronte alla mancanza di disponibilità di quest’ ultima a candidarsi per la propria città – salvo ripensamenti -, Silvio Berlusconi, assumendosi il ruolo di federatore e ispiratore di una linea comune, ha concordato con la stessa leader di Fratelli d’Italia e Matteo Salvini, la candidatura di Guido Bertolaso. Ma le prime uscite pubbliche dell’ex capo della protezione civile, peraltro in seguito rettificate, hanno riservato l’ennesimo colpo di scena della campagna elettorale. Poco convinto dalle dichiarazioni sui rom “vessati” e dagli attestati di stima verso il centrosinistra, il segretario federale della Lega si è sfilato, indicendo una due giorni di “consultazioni popolari”, da cui però non ha tratto conclusioni definitive, prendendo di fatto tempo. Il leader di Forza Italia, coerentemente, non ha mai messo in dubbio la candidatura di Bertolaso e ha rilanciato la proposta di richiamare i romani ai gazebo nel prossimo week end per fornire “indicazioni e priorità” per la stesura del programma. Una sorta di compromesso con Salvini che ha più volte ribadito di voler testare nuovamente l’opinione dei cittadini della Capitale.
A questo punto occorre fare un passo indietro, e tentare di spiegare l’attegiamento di Matteo Salvini, che si trova per la prima volta alle prese con la difficile situazione romana e le sue dinamiche.
Il problema non è Salvini, semmai “Noi con Salvini”,  il progetto che lo vede impegnato a conquistare le regioni del Sud, nell’ottica di accreditarsi come sfidante di Matteo Renzi nelle prossime consultazioni politiche nazionali alla guida della coalizione di centrodestra. Ebbene, è passato più di un anno dalla nascita del movimento: non vi è dubbio che le nuove formazioni necessitino di tempo per radicarsi e per affermarsi, vale la pena però ricordare che nel 1994 l’allora “partito nuovo”, Forza Italia, riuscì ad imporsi e vincere le elezioni politiche a pochi mesi dalla propria nascita. Altri tempi, altre situazioni, certo, ma se di un progetto politico dopo un anno non si vedono i risultati, c’è da riflettere.
In Campania, Puglia, Abruzzo, Basilicata, Molise e persino Sicilia e Sardegna, con tutte le difficoltà del caso, Noi con Salvini, dopo un iniziale inevitabile impasse, sembra aver trovato un equilibrio e un ruolino di marcia. E’ sul Lazio, Roma soprattutto, che il movimento mostra i suoi limiti.
ll consenso ci sarebbe, ma non decolla. Non c’è un’ organizzazione, uno statuto e un progetto coerente condiviso da tutte le varie anime che lo compongono. Ci si chiede soprattutto come mai non sono stati rispettati i presupposti indicati a suo tempo dallo stesso leader, ovvero quello di dar vita ad un partito nuovo, con criteri di selezione rigidi, di rottura con il passato.
L’importanza nazionale delle elezioni per il Campidoglio viene compresa da Salvini, evidentemente però i suoi consiglieri non hanno saputo districarsi su un terreno scivoloso come quello della politica romana, fra vecchi arnesi della destra radicale in cerca di una second life altrimenti impossibile e riciclati/e con forti ambizioni personali non supportate da competenza e reale peso sul territorio.
Non è un caso che l’unico nome espressione di Noi con Salvini nelle schede sottoposte ai gazebo leghisti della scorsa settimana sia stato quello di Irene Pivetti, che è di Milano e sta fuori dalla politica da anni. Persino la giornalista e scrittrice attiva sul fronte dei diritti umani Souad Sbai, che ha sposato sin dall’inizio il progetto, molto apprezzata dal leader leghista e lanciata in un primo momento come candidata interna al movimento NCS dallo stesso Salvini, in questo momento ha scelto la via del silenzio. Un silenzio assordante. Tace anche l’altra donna forte del movimento, la vice capogruppo della Lega – Noi con Salvini alla Camera Barbara Saltamartini, che gode di un alto consenso ed è forte di una grande esperienza nelle vicende politiche della capitale.
Come farà a questo punto Salvini, e il centrodestra tutto, a uscire da questo impasse che si è creato?
E’ un fatto innegabile che l’istinto di sopravvivenza stia giocando un ruolo fondamentale: la prima regola in politica è esistere. Il che presuppone lungimiranza, capacità di mediazione e gestione dei contrasti, ma anche una buona dose di cinismo, una visione troppo edulcorata e utopistica del mondo della politica é fuorviante e irrealistica. Primum vivere, deinde philosophari.
Detto ciò, impostare la propria azione politica come una logorante ed eterna partita a scacchi con i propri alleati e all’interno stesso del proprio partito per veder trionfare il proprio ego (e affermare la propria presenza) non ha nulla a che vedere con l’idea di mettersi al servizio della propria nazione e perde qualsiasi connotazione di eticità, intesa come spirito di servizio che dovrebbe guidare l’ agire politico.
Un conto è la realpolitik, con la sua inevitabile dose di tatticismi, un conto è scimmiottare House of Card e il suo protagonista Frank Underwood, disposto a sacrificare qualsiasi cosa sull’altare del successo personale.
Quello che sta andando in scena nella capitale più che alla serie americana sembra ispirarsi al romanzo di Carlo Emilio Gadda Quer pasticciaccio brutto de via Merulana.
Un intreccio così ingarbugliato che alla fine non trova scioglimento, e la vicenda non ha una vera e propria fine. Speriamo così non avvenga anche nella realtà.

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