Observatory Mansions è da qualche parte nel cuore dell’Inghilterra e se qualcuno si aspetta di trovare lì la Londra dei ristoranti indiani, l’incrocio di etnie narrato, per esempio, da Zadie Smith, ha sbagliato indirizzo. Qui nessuno sogna Beckham.

“Observatory Mansions” di Edward Carey (Bompiani, trad. Sergio Claudio Perroni, pagg. 338, euro 17) forse è solo un non luogo, un enorme cubo di quattro piani in stile neoclassico, un ex osservatorio sguarnito di telescopi, un’antica residenza nobiliare, chiamata un tempo Tearsham Park, dove non ci sono più tintinnare di posate, il passo veloce della servitù, i ricevimenti: ora è solo silenzio. «Il parco ricordava com’era stato. Ricordava altri alberi. Ricordava erba, ettari di prato. Ricordava zoccoli di vacche e vitelli. Ricordava: circondato da un recinto di ferro battuto, il parco era ciò che rimaneva di un parco un tempo immenso e lussureggiante. Il prato era stato spodestato: sul terreno erboso ci avevano piantato delle case, gli armenti avevano lasciato posto a mandrie di gente. E qui devo confessare di aver camminato, un tempo, da bambino, lungo le strade che cingevano il parco. In quel tempo io c’ero, le strade no: in quel tempo era tutto casa mia».

Prendete un individuo, misantropo e piuttosto maniacale, uno che come lavoro fa la statua umana, completamente verniciata di bianco, al centro di una piazza di una grande città. Quest’individuo vive in un palazzo con altri inquilini, una vecchia tenuta nobiliare in disfacimento. Tra le sue manie c’è l’insopprimibile desiderio di collezionare oggetti più o meno inutili, con una sola caratteristica in comune: sono stati rubati a persone con cui quest’individuo aveva, bene o male, a che fare. Erano i loro ricordi, sono diventati i suoi. La sua collezione nel tempo ha raggiunto i 996 pezzi, tutti schedati e catalogati. Cose del tipo: un vestito d’amore (lotto 995), un libro rilegato in marocchino, volume della storia degli Orme (lotto 163), un paio di stampelle (lotto 301), un telecomando di televisore (lotto 380) e così via, fino al lotto 996, chiamato semplicemente l’oggetto. Dietro ogni oggetto c’è una persona, un passato, un ricordo. Prendete tutte queste storie, incrociatele, e avrete la rappresentazione intuitiva del mondo che ci siamo lasciati alle spalle, che se volete potete individuare nella Old England, nel Novecento, nella tradizione, nel vostro quartiere, nella vostra città, come ve li ricordavate un tempo.

Ad “Observatory Mansions” il passato cerca di sopravvivere, ma non ha più memoria. È la campagna che ha visto arrivare la città e resta lì, come un parco abbandonato, che fa da spartitraffico tra arterie di cemento. È il ripostiglio di classi sociali in disgrazia, scivolate ai piani bassi della storia. È la storia degli ultimi inquilini rimasti. La storia degli Orme, certo, ex padroni di tutto, quattro quarti di nobiltà andata a male, che hanno venduto pezzo a pezzo, appartamento dopo appartamento, il loro passato, fallimento segnato da un ineluttabile degrado genetico. Ed è anche la storia di chi è venuto lì ad abitare.

“Observatory Mansions” è soprattutto il romanzo d’esordio di Edward Carey: 33 anni, decisamente inglese, nel suo passato ci sono alcune opere teatrali, una carriera come illustratore (con cui si guadagna da vivere) e una breve esperienza di lavoro al Museo delle cere di Madame Truffault. Carey incastra storie nelle storie e snocciola ricordi e impressioni con un ritmo che prima scivola piano, poi sale, incalzante, lasciando che tutti gli indizi seminati qua e là s’incontrino per la resa dei conti finale. Esistenze e destino di ogni individuo dipendono, per qualche ragione remota, da quelli degli altri. Il punto di osservazione – freddo, impersonale, maniacale, eppure terribilmente umano – è quello di Francis Orme. Sua madre ha abdicato al linguaggio, suo padre vive sprofondato in una poltrona. Francis porta sempre dei guanti di seta bianca, con cui si difende dal marcio del mondo. Quando i guanti si sporcano lui li sostituisce con un paio nuovo. I vecchi non li butta, ma li conserva in bauli-sacrario. Non guarda mai le sue mani nude. Non ama i contatti con il prossimo e ha il dono dell’immobilità, esteriore e interiore.

Nel centro di una città, in quella zona abitata da gente con un po’ troppo denaro, c’è un altro parco. Al centro del parco c’è un piedistallo sprovvisto di statua. Ogni mattina prende il suo posto una statua di carne, coperta di vernice bianca, immobile creatura immacolata, che si anima solo per un attimo quando qualcuno lascia cadere nel piatto una monetina. In quel momento la statua apre gli occhi e soffia una bolla di sapone. La statua si chiama Francis Orme e quello è il suo lavoro. Francis Orme è un flâneur immobile.

Tra i suoi oggetti d’osservazione ci sono i suoi inquilini: un Portiere Sibilante, una Donna Cane, un Vecchio Professore dai Mille Odori, una signora che confonde la sua vita con i serial televisivi, tutti personaggi di una sorta di realismo più che magico, grottesco. Strani soggetti che sembrano non avere più alcun futuro e si sono dimenticati del proprio passato, con il quale si rifiutano di fare i conti: aspettano che in qualche modo si compia la loro sorte, essere archiviati dalla storia, e ricordati solo attraverso i loro oggetti nella «collezione d’amore» di Francis. L’arrivo dell’inquilina dell’appartamento numero 18 – Anna Tap, sorta di Amélie anglosassone – muta la situazione. La ragazza ridona ai vecchi inquilini la propria memoria, il passato. Li fa entrare nel presente, li strappa dal limbo dell’anti-modernità e offre uno spiraglio di futuro. Tutti alla fine trovano un destino. Restano Francis e Anna, innamorati e capaci di affrontare il mondo che si muove al di là del vecchio osservatorio. Accettano il presente.

“Observatory Mansions” si chiude con una demolizione. La magia e l’ossessione del passato è stata ridotta alla sue giuste dimensioni. E alla fine si comprende che il romanzo di Edward Carey è, certo, un lungo atto d’amore verso ciò che abbiamo alle nostre spalle, ma quest’amore può diventare un’ossessione, una gabbia ideologica e sentimentale. “Observatory Mansions” è un soffio di fiducia verso l’era, il secolo, che ci sta davanti. Basta togliersi i guanti bianchi e sporcarsi le mani, vivendo.

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