Di cosa parliamo quando parliamo di forconi. Nessuno lo sa ancora bene, forse neppure loro. Sono in cerca di una forma, di un’identità, di una bandiera o di un cappello. Qualcosa però sta diventando evidente: non piacciono alla gente che piace. Non sono chic, non sono trendy, non sono cool, non indossano caschi neri e magliette del Che, non sono neppure figli di papà. Non spaccano vetrine. Non reclamano più Stato. Non si preoccupano del capitalismo. Poi, certo, uno di loro lascia Genova in Jaguar. Non è furbo. Non ci fa una bella figura. Era meglio un trattore, ma anche questi sono pregiudizi.
Non vogliono cambiare il mondo, ma si accontentano di sopravvivere. Non occupano e pretendono di non essere occupati: dalla cosa pubblica, dalla burocrazia, dall’Europa. Non parlano in nome di tutti, ma per se stessi. Non chiedono giustizia, ma libertà. Non piacciono alle associazioni di categoria, ai sindacati, alla Confindustria e ai partiti di governo. Purtroppo non hanno letto Ayn Rand. Non baciano i poliziotti per provocarli e senza dubbio non hanno il fascino maudit della ragazza No Tav. Le loro foto non faranno storia. Non ci saranno film, poesie, masturbazioni. Non si vince lo Strega raccontando storie su di loro. Sono da locanda e da taverna, non da Cinque Stelle e non basta un Suv per sdoganarli. Sono facce paesane, di gente con l’accento di provincia, con le «panze» da padroncini dell’autotrasporto, tutta gente da non far entrare in società. Solo che davanti a loro, per caso o come un saluto discreto, i poliziotti si tolgono il casco. Forse perché in quei volti si riconoscono. C’è qualcosa di familiare, qualcosa dei padri o degli zii, c’è la frustrazione di un mestiere dove impari a ingoiare la saliva in silenzio, c’è che a un certo punto non vuoi più ascoltare quelli che parlano di spread, di debito e di Pil, di Imu e di Tares, di ogni discorso degli economisti sulle medicine amare per superare la crisi. Perché anche i poliziotti «tengono famiglia» e una busta paga con cui non arrivano a fine mese.
Sono buoni o cattivi i forconi? E chi lo sa? Sono al bivio e quando scoppia la protesta c’è sempre qualcuno che grida più forte. C’è chi cerca una rivincita dai verdetti della storia, chi lo fa per professione, chi ci specula e chi scommette sulla confusione, c’è chi paga e chi spera di guadagnarci. C’è chi lancia la locomotiva, chi butta le bombe carta e chi prende schiaffi dai tifosi dell’Ajax. È come la rivolta del pane. Neppure Manzoni conosceva i nomi dei buoni e dei cattivi. Sapeva che Renzo stava lì, nella folla, affamato come gli altri e piuttosto incavolato con le prepotenze dei signori e dei suoi bravi. Niente marxismo, nessuna coscienza di classe, piuttosto una scarsa fiducia nella provvidenza. Lazzari o futuristi? Nessuno sa come finiscono queste cose. A Boston per una tassa del due per cento sul tè spararono in faccia alla madrepatria. E poi crearono un impero. A Parigi la Marseillaise la cantò pure la ghigliottina, con le tricoteuses a godersi sotto il palco il reality show. Washington o Robespierre? Libertari o giacobini? Probabilmente nessuno dei due. Restano due cose. Le ragioni della rabbia sono sacrosante e sarebbe un errore ignorarle. La rivolta dei forconi spiazza artisti, intellettuali e giornalisti. Quando mai si è visto che contadini, bottegai, pastori, artigiani e autotrasportatori scendono in piazza per reclamare qualcosa di così piccolo borghese come la riduzione delle tasse? Illuminante la risposta dei maestri del pensiero: questi puzzano.

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