Non mi piacciono i mausolei. Questi marmi bianchi, questa ipocrisia, questa grandezza che dovrebbe resistere al tempo e magari lo farà. Non importa il mio nome. Non saprete mai come mi chiamo. Sono uno dei tanti, troppo pigro per scrivere qualcosa di grande, troppo mediocre, forse. Eppure ho scritto, quasi tutti i giorni. Abbastanza da non farmi amare. Non da lui, sarebbe eccessivo, ma dai suoi uomini, da chi sussurra, da chi mette i timbri, da chi decide le sorti e le fortune delle persone. C’è sempre un certo fascino a servire gli dei, soprattutto se un Dio ha parvenza di uomo. Ottaviano non sarà mai un Dio incarnato. Non ne ha lo spessore. E’ immagine. E’proiezione. E’ ambizione. In quelli come lui il Dio e l’uomo vanno in collisione e si disperdono a vicenda. La parola che adesso mi viene in mente è annichilirsi. Succede praticamente sempre. Da terre lontane e blasfeme, di miscredenti e falsi dei, narrano che una volta, almeno, tutto ciò non è accaduto. E’ un caso o un’anomalia, probabilmente il Dio doveva essere umile e l’uomo coraggioso, denso come materia, tanto da mostrarsi reale. Reale come la sostanza dei sogni. In quel caso, dicono, le due natura, il nulla e il tutto, il meno e il più, non si sono annichilite. Non so quale sarà il prezzo di questa leggenda e se è verità solo lui, il Dio incarnato, può dirci di cosa si tratta.

Ottaviano, dicevo. No, non lo chiamo augusto. Neppure imperator. Potrei chiamarlo rex, perché quello è stato, ingannando i romani e quei coglioni dei cesaricidi. Hanno ucciso Cesare in nome della libertà per ritrovarsi un re. Bella impresa. Certo, ora dite che Ottaviano ha dato a Roma la pace. Scusate se qui io vedo solo un deserto. Quest’uomo ha ottavianizzato tutto. La res publica è Ottaviano. La storia è Ottaviano. L’epica è Ottaviano. Le origini di Roma sono Ottaviano. Quello che scrive Virgilio, per godere dei privilegi di Mecenate, è a uso e consumo del mito di Ottaviano. La morale è Ottaviano. Ma Ottaviano non ha morale. Ha ereditato da Caio Giulio Cesare il nome, rinnegando suo padre. Ha rubato l’arte politica a Cicerone, salvo poi concedere per motivi politici la sua testa ad Antonio. Ha rubato l’arte militare a Marco Vipsanio Agrippa, per strappargli l’amore. Ha rubato la vita sua figlia Giulia, perché dava scandalo in pubblico con gli stessi vizi, se vizi si possono chiamare, che lui praticava in privato. Ottavio in nome della pace ha messo al bando la libertà di ognuno di noi. Non credo che sarà il primo. Però è questa la pace che voi romani avete voluto e invocato. E’ vostra. Non sarò io a rimpiangerla, come non rimpiango la guerra. Mi chiedo solo se tra il secolo appena tramontato e questo che ancora sta cercando di essere, impantanato nella sua non definizione, c’è un’altra possibilità, qualcosa simile a un sogno o a un’utopia senza inferi, senza buone intenzioni, senza vittime nel nome della pace o di altri dei. Non rimpiango il passato, perché troppi in fondo non avevano altra ambizione che arrivare a questo. Ottaviano è la sintesi di tutti i partiti, di qualsiasi fazione, di quelli che volevano che “nulla cambiasse”, ancorati come morti al mos maiorum, e di quelli che promettevano di cambiare tutto, non avendo in mano nulla. Non so perché di questi salvo solo Cesare, forse solo perché sapeva perdonare. Allora davanti a questo mausoleo che voi chiamate augusto io vedo solo il cadavere dell’altro secolo e sono qui per raccontarvelo.

Crisi e morte della repubblica: così parleranno un giorno gli storici. È il secolo breve dell’antica Roma: conflitti ideologici, guerre civili, il Senato contro i grandi uomini, la tradizione che cerca di resistere alla modernità, il partito degli optimates contro quello dei populares, l’epoca dei generali e degli oratori, le riforme agrarie, l’assassinio dei Gracchi, la scomparsa di Scipione l’Emiliano (forse avvelenato dalla moglie, sorella dei due tribuni), il terrore di Mario e Cinna, la restaurazione di Silla, e liste di proscrizione, la ribellione di Sertorio in Spagna, l’astro di Pompeo, Marco Livio Druso vuole estendere la cittadinanza agli amici dell’Urbe (viene ucciso), la guerra dei socii italici contro Roma, la stella di Cesare, i denari di Crasso, la rivolta di Spartaco, Cicerone contro Catilina, il triumvirato, la gioventù dorata e l’amore libertino, Catullo e Clodia («Mia Lesbia»), le squadracce di Clodio contro quelle di Milone, Cesare alla conquista della Gallia, il Rubicone, Farsalo, il suicidio di Catone, la testa di Pompeo portata da meschini ministri egiziani in una cesta, le lacrime di Cesare, Cleopatra, il consolato a vita, la corona di re rifiutata tre volte, le idi di Marzo, Bruto il tirannicida, Filippi, Antonio, Ottaviano e Lepido, ancora il triumvirato, l’ultima guerra civile, la pace di Augusto, fine della repubblica, inizio dell’impero.  Tutto qui, dal 133 al 27 avanti Cristo.

Sono gli anni in cui una repubblica guidata da poche famiglie, che digerisce a fatica le ambizioni di pochi uomini nuovi e che non perdona chi tenta di andare oltre l’equilibrio raccomandato dai padri, si confronta con un mondo che all’improvviso è diventato troppo grande, troppo esteso, troppo veloce. È un secolo in cui la politica diventa scontro fratricida.  Scorrerà il sangue, le teste dei nemici verranno issate sui rostri del foro.  La concordia teorizzata da Cicerone è solo un esercizio retorico, o l’illusione di un provinciale che crede nel potere della parola, ma morirà con la lingua tagliata, vittima di un uomo stanco delle sue orazioni (Antonio) e del silenzio complice del suo pupillo (Ottaviano).  Le vecchie leggi non servono più, le nuove sono osteggiate, e gli dei in cielo sono solo una pallida presenza: né tradizioni, né religione, né stato.

Chi ha ucciso, allora, la repubblica?  Se lo chiedete a Catone, il minore, o al suo discepolo e nipote Bruto, vi diranno che sono stati i nemici del Senato. È stato Tiberio Gracco che ha imposto una riforma agraria senza passare per il Senato, rivolgendosi alla plebe. È stato suo fratello Caio, ancora più estremista, un aristopopulista senza alcun rispetto per la legge.  Vi diranno che sono stati i demagoghi alla Saturnino o alla Catilina, vi diranno che sono stati i generali, le loro ambizioni, la loro megalomania, che li ha portati a minacciare le sacre mura di Roma, con i loro eserciti ormai privati che non obbedivano più al Senato ma al singolo.  E quindi Caio Mario, e quella bastarda riforma che ha trasformato le centurie in un branco di nullatenenti.  Vi diranno che sono stati i nuovi costumi importati all’Oriente, il lusso, il denaro dei mercanti, che volevano nuove terre da conquistare e nuove guerre, e i giovani senza più rispetto per i padri, e donne che amavano come uomini, meretrici di sangue nobile come la dissennata Clodia e il suo circolo di intellettuali, quella che rubava il sesso tra il popolino del Tevere.  E, soprattutto, vi diranno che è stato Caio Giulio Cesare, l’aristocratico che è voluto diventare più grande dei suoi pari e che ha calpestato il mos maiorum, la costituzione materiale, tutte le leggi.

I Gracchi o Druso, o quel Silone comandante dei Marsi, vi diranno che la colpa è di chi ha voluto fermare il tempo, di chi ha violato la sacralità di un tribuno della plebe, massacrandolo in pieno foro, e una repubblica non può prosperare nel sangue.  Vi diranno che la colpa è di chi ha osteggiato quelle riforme necessarie alla  sopravvivenza politica di Roma. Mario dirà che lui voleva solo ciò che gli spettava.  Lui aveva salvato l’Urbe dai barbari, lui, non i Metelli, non quegli arroganti aristocratici senza valore.  Silla dirà che Roma è stata uccisa dall’ambizione di un cafone di Arpino. Cinna dirà che la repubblica lui l’avrebbe volentieri ammazzata, tanto non serviva a nulla.  Saturnino ricorderà che lui voleva il bene della Suburra, contro i ladri che sedevano in Senato.  Spartaco voleva solo non morire in un’arena.  Cicerone dirà che è stato Catilina e lui, come non ha mai smesso di ricordare, l’ha salvata.  E solo la concordia tra le classi – cavalieri e senatori, mercanti e politici – avrebbe potuto di nuovo salvarla.  Catilina dirà che a ucciderla è stata la lingua di Cicerone e i parrucconi come lui.  Pompeo sarà come al solito sopraffatto dai dubbi.  E l’unica cosa certa è che lui era Pompeo Magno, il più grande generale di Roma, figlio del macellaio del Piceno, quel carnefice ucciso dalla peste.  Bruto piangerà: la Repubblica era sua madre.  E ha ucciso Cesare perché Cesare era l’amante di Servilia, sua madre.  E lui, di Cesare, non voleva essere figlio.  Antonio dirà: amavo Cleopatra.  Ottaviano, il furbo Augusto, sancirà che la repubblica è morta perché così doveva essere e lui ne ha celebrato il funerale.

E Cesare?  Lo sapete.  Cesare, discendente di una dea e di un re, era la Repubblica.  Era la Repubblica che per non morire si era incarnata in un uomo.  Morto lui, morta anche lei.  Erano le idi di marzo.  Raccontano che tutta Roma pianse.

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