Non lo sapevo, ma ero un bambino disgrafico. Non che mi sia mai fatto un gran problema di questa cosa, visto che a quei tempi ognuno aveva il suo modo di essere un po’ diverso. Non eravamo perfetti e neppure disgraziati. Adesso, a ritroso, invece lo so. Se scrivi una manciata di lettere e qualche numero a rovescio, tipo la b o la d con la gobba a specchio o la a che guarda a sinistra o il 4 contromano, sei disgrafico. Se la tua grafia è un rebus per gli altri e anche un po’ per te sei disgrafico, se vai oltre i margini sei disgrafico (e io che pensavo che i margini esistessero solo per essere superati). Se non sai disegnare a mano libera neppure uno scaffale e pensi che una linea perfettamente retta non esista in natura sei un disgrafico (io pensavo solo di essere scarso in disegno). Se mangi impugnando la forchetta con la destra o con la sinistra sulla base di chi ti sta vicino o dell’umore del giorno pure sei disgrafico e pure per sciagura ambidestro, uno insomma che non ha ancora deciso quale parte del cervello usare di più. A quanto pare se le usi tutte e due è un problema.
Ora dicono che la disgrafia diventa palese e certificata in terza elementare. In quarta in effetti ricordo che mi mandarono alla lavagna davanti a un gruppetto di dotti, medici e sapienti. Vediamo come questo scrive a rovescio. Non capivo dove fosse il caso, la mia maestra disse di non forzarmi, perché prima o poi avrei deciso di scrivere come tutti gli altri, la questione finì lì e mi dimenticai di tutta questa storia. In prima media abbandonai il corsivo e scelsi da solo lo stampatello come carattere a mano. Sono sopravvissuto.

Tutto questo non mi ha lasciato cicatrici, anche perché nessuno me lo ha fatto pesare. Dicono che i bambini disgrafici siano lenti con i nodi dei lacci delle scarpe. Confesso che è vero. Fatico ancora con la cravatta. Ho cominciato a giocare a calcio a cinque anni e per diverso tempo chiedevo ai miei amici di darmi una mano con gli scarpini. Mi accontentavano. Saper usare il destro e il sinistro vale di più in mezzo al campo. I disgrafici non hanno senso dell’orientamento. Capita. Al massimo chi mi conosce racconta con toni leggendari le mie avventure. Mi apprezzano per altre caratteristiche.
Racconto tutto questo perché mi è capitato tra le mani un manuale ministeriale su come riconoscere e “rieducare” i bambini disgrafici. Per psicologi e pedagoghi sarei stato un bambino da contrassegnare. La diagnosi, sostengono, viene effettuata dal Servizio sanitario nazionale che rilascerà una certificazione di Dsa. Dsa. Una sigla di tre lettere. Che cavolo vuol dire? Disturbo specifico dell’apprendimento. Un marchio. Tu sei un bambino diverso. Lo facciamo per te, per aiutarti, perché è chiaro che con questa carenza sarei sempre emarginato in ultima fila. Questa scuola è omogeneizzata, ripariamo chi è fuori norma, non come la vecchia scuola che vi lasciava naufragare come battelli alla deriva. Magari è così, però scusate se ancora ringrazio Dio per la saggezza della mia maestra.
C’è una cosa soprattutto che mi inquieta. Sui disgrafici pesa un’ombra di disabilità. Non lo dicono, ma si capisce che un po’ lo pensano. “La disgrafia colpisce la vita del paziente da un punto di vista emotivo e sociale. Spesso la condizione comporta rabbia e frustrazione dovuta all’incapacità o difficoltà nello svolgimento dei compiti richiesti. Normali attività come ad esempio la capacità di esprimere idee e parlare possono diventare un vero problema”. Oddio, questo se la brutta grafia diventa una colpa, una colpa scolastica. Io, bambino disgrafico inconsapevole, ho imparato a leggere a tre anni. A sei parlavo di politica. Alle elementari divoravo fumetti, romanzi, storie, favole, racconti sulla rivoluzione francese e americana, qualsiasi cosa di sport mi capitasse tra le mani e non credo di aver mai avuto timore ad esprimere le mie idee. Scrivevo a rovescio e non sapevo disegnare, ma ripeto ognuno intorno a me aveva i suoi punti di forza e le proprie difficoltà. Nessuno veniva giudicato per la media, semmai stupivano i picchi, quei piccoli talenti per cui c’era sempre qualcuno che sapeva fare qualcosa di strano. Non dico a scuola, ma sicuramente tra noi bambini sorprendevano le discontinuità. A nove, dieci anni scrivevo racconti, quelli sì in segreto e in clandestinità, perché va bene che puoi essere un po’ strambo, ma non fino a questo punto. Ai miei compagni tentavo di nasconderlo. Poi qualche anno dopo lo hanno scoperto e, soprattutto le ragazze, mi chiedevano di leggerli. Ok, lo confesso, si comincia a buttare giù storie, disgrafico o no, per sedurre. Non sempre funziona.
La scuola omogeneizzata si preoccupa per te. Le norme sui disturbi dell’apprendimento sono regolate dalla legge 170/10, che è un’evoluzione della 104 sulle disabilità. Il bambino disgrafico non ha diritto a un insegnante di sostegno ma ad un piano didattico personalizzato che prevede strumenti compensativi. Quali? Quaderni Erickson che hanno spazi di scrittura delimitati da righi colorati in blu o giallo. Un computer con correttore ortografico e un registratore per le lezioni. Tempi più lunghi per le prove scritte. Non devono fare prove scritte in lingua straniera. C’è poi un programma di “rieducazione” che coinvolge tutto il corpo. Non finisce qua. “E’ fondamentale per il buon esito della terapia che il bambino sia consapevole dei suoi problemi e sia informato dell’impegnativo lavoro che bisogna svolgere (anche se presentato sotto forma di gioco). In tale maniera si sentirà gratificato dai piccoli progressi e non si demoralizzerà per gli insuccessi”.
Immagina, adesso. Sono un ragazzino delle scuole medie e mi certificano, marchiano, come Dsa. Mi fanno questo discorso che devo registrare le lezioni e non si sa perché. Mi danno perfino più tempo per scrivere un tema e qui potrei schiantarli. Solo che per tutta la classe sono un Dsa. Mi viene rabbia. E penso di essere stato fortunato a crescere in un piccolo paese di tanti anni fa dove ero uno con le sue stranezze tra i tanti. Non ho alcun titolo e sapere per parlare in modo professionale della disgrafia. Sono solo un paziente mancato. Mi chiedo solo se tutta questa enfasi sia giustificata. Certe volte mi viene il dubbio che certe disabilità siano un modo per far lavorare nuove tipologie di professionisti. Magari mi sbaglio e so che quello che dico può essere urticante per famiglie, professori, consulenti e istituzioni. Qualcuno potrebbe dire che la mia disgrafia non è così grave e ci sono tanti bambini che hanno bisogno di attenzioni. Ma se leggo le caratteristiche del disgrafico tipico ci rientro di brutto, e lo sono ancora. Non scrivo mai in corsivo. Mi perdo ovunque, anche al centro di Bologna, dove come narrava Dalla non si perde neanche un bambino. Diciamo che a leggere i discorsi sulla disgrafia mi è andata bene. Mi sembra però di capire che tra le cause della scorretta grafia ci sia una scarsa lateralizzazione del cervello. Quel peccato di ambidestrismo, insomma. Mi capita ancora di non saper bene se un’azione la faccio meglio con la destra o con la sinistra. Con il tempo la destra ha comunque preso il sopravvento, per abitudine, presumo. Non sono bravo con la retromarcia, aggiungo. Qui, però, voglio raccontarvi cosa mi ha regalato la disgrafia.
Non è vero che sono distratto. Lo pensavano i professori quando mi incrociavano le prime volte. La verità è che sono in grado di ascoltare e seguire tre o quattro discorsi contemporaneamente. E’ come se i pacchetti di informazioni correlati mi arrivassero al cervello seguendo canali distinti e decodificati su più piste. Questo significa che a scuola potevo leggere il giornale e ascoltare il mio compagno e la professoressa. E nel caso alzare la testa dall’articolo rosa della Gazzetta e rispondere a strettissimo giro alla dell’uno e dell’altro. A quel punto, dopo un paio di magie di questo tipo, i professori la smettevano di richiedere la mia partecipazione. C’era ma non doveva per forza essere esclusiva. Ai disgrafici, come aggravante, si associa un deficit di attenzione. Siamo davvero sicuri che sia così? Stupeficium. O ai miei tempi Abracadabra.
Non prendo appunti. Mai. Neppure quando faccio le interviste. Questo ogni tanto lascia perplessi uffici stampa e gli stessi intervistati. Non prendo appunti perché in effetti scrivere potrebbe farmi perdere particolari importanti. Mi concentro invece sui concetti e sulle parole forti, così le chiamo, che ognuno sottolinea quando parla. Sintetizzo e tengo tutto a mente. Poi scrivo. Non è fedele al cento per cento. E’ fedele nelle cose che contano, per il resto lavoro di sceneggiatura. Mi capita che il giorno dopo, leggendo, chi era presente mi dica: ma come hai fatto a ricordati perfettamente tutto senza uno straccio di appunto. Non è così. Non mi ricordo tutto. Solo le cose fondamentali. Le stesse che ricorda l’intervistato. Non uso registratori perché le interviste sbobinate in genere sono più brutte. Perlomeno le mie. Mancano di narrazione fluida. Detto questo ognuno ha i suoi metodi. Non sarà certo un disgrafico a dare lezioni di vita e di metodo agli altri.
So dettare storie a braccio. Senza fatica. Questo perché la disgrafia mi ha donato una tastiera nel cervello. Scrivo nella testa e sono in anticipo di almeno una frase, una narrazione, rispetto a quello che sto dettando a voce. Nel display cerebrale scrivo una nuova francese mentre al telefono sto dettando quella precedente. Tutto questo avviene in contemporanea. E’ l’abitudine, o se volete la fatica, a non scrivere a mano. Questo mi aiuta anche a improvvisare, a raccontare storie davanti a un pubblico, senza avere punti di riferimento scritti.
Vorrei che dotti, medici e sapienti tenessero conto anche di questo quando parlano di disgrafia. Non c’è dubbio. Un disgrafico può avere alcune difficoltà (ma chi non ne ha) ma sviluppa anche superpoteri. La mia paura è che questa ansia di catalogare e certificare tutto, di rieducare e di rimettere tutto in riga, per non sforare i margini, privilegi la mediana e scarnifichi con un marchio di inabilità i “fuorilegge”. E’ come nelle scuole calcio. E’ utile crescere ottimi professionisti, ma attenzione a non scartare l’imponderabile, la schiatta dei non ortodossi. Diranno che l’attenzione ministeriale e della scuola buona e giusta serve proprio a questo. A salvare disgrafici, dislessici, discalculanti e tutta la compagnia dei fuori registro. Va bene, però c’è quel marchio di tre lettere che assomiglia tanto a una sentenza. Dsa. Disturbi specifici dell’apprendimento. E se non fosse il solco e la bandiera di una deficienza, ma la finta immarcabile di Garrincha? Non è romanticismo. E’ che quella sigla, per empatia con chi scrive brutto o a rovescio, mi sta davvero sulle scatole.

Quando scrivo per me, al computer, scelgo come carattere il corsivo. Sul foglio, a mano, mi viene come un aborto di arabesco senza grazia e chiarezza, ma sul video non assolutamente una rivincita. Mi ricorda che per essere quello sei devi rinunciare a qualcosa. E’ il prezzo che ho pagato per essere me stesso.

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