Verranno alla fiera, per incontrarsi, per lo scambio, per il lavoro, per gli affari, per vedere cosa c’è di nuovo, per il sesso e per l’amore, per farsi vedere, per rubare, per lasciarsi andare, per il saltimbanco e per il cantastorie, perché non sono giorni come gli altri, per fuggire dai campi, per mischiarsi, per cercare qualcosa che non trovi, per la meraviglia e perché magari c’è qualcosa di utile a prezzo d’occasione. Verranno soprattutto per la festa. I nomi nascondono sempre delle storie. Fiera, questa fiera, non quella feroce e selvaggia di fera, femminile di ferus, feroce, ma quella del giorno di festa, quella feria latina che è una pausa da dedicare agli dèì e in teoria all’ozio, diventa nel Medio Evo uno spazio di commercio e libertà. L’occasione, in principio, resta religiosa. La fiera si svolge sul sagrato delle chiese. Ma poi i mercanti fuori dal tempio diventano troppi e allora tutto si sposta fuori le mura. Come il mercato. Solo che il mercato è un giorno alla settimana. E’ piccoli affari. La fiera è lo straordinario, dura minimo tre giorni e può arrivare oltre i quindici. La fiera è il grande evento dell’anno, porta soldi e sogni, porta arte, divertimento e merci. I mercatores sono ancora personaggi ambigui, non graditi ai probi viri e ai bempensanti. E’ un mestiere di confine, da deviante. Ci vuole coraggio per fare il mercante. Si parte e non si sa come e se si arriva. Si attraversano strade impervie e capita di lasciarci la pelle. Il bello delle fiere è che portano denaro. Il brutto, per chi rappresenta il potere, è che rompono gli equilibri, portano il mondo a casa e cambiano lo sguardo. I feudatari francesi sono i più lesti a scommettere su questo disordine che genera ricchezza. Nella regione della Champagne, a Parigi quella dedicata a San Dionigi, Saint-Lazare, Saint-Laurent, Saint-Germain, la Foire des Jambons e quella di Saint-Ovvide. Ma più antiche e di maggiore importanza furono, come si è detto, le fiere di Champagne, e precisamente: di Provins, di Bar, di Lagny, di Bourges, di Troyes, ecc., le quali divennero, specie nel sec. XII, potenti focolari di attrazione economica dove si poteva acquistare di tutto: dai panni ai pellami, dai feltri alle droghe, e dove convenivano, oltre ai Francesi, Italiani, Tedeschi, Olandesi, Fiamminghi. Altre fiere celebri furono quelle di Nîmes, di Rouen, di Bordeaux, di Tolone, di Besançon, di Noyal-Pontivy e quella celeberrima di Beaucaire. Notevoli pure le fiere fiamminghe e quella cosiddetta dei drappi, di Bruxelles, celebre per la bellezza delle mercanzie e il volume degli affari. In Germania furono molto rinomate le fiere di Francoforte sull’Oder, di Brunswick, di Danzica, di Magonza, di Breslavia e di Francoforte sul Meno. Gli italiani in questa storia hanno un ruolo particolare, perché non solo portano le merci, ma si preoccupano anche del cambio, fanno i banchieri e si inventano due cose fondamentali per il capitalismo: la cambiale e la partita doppia. Ma la fiera non è solo denaro. La fiera è storie, è cambiamento, è futuro, è libertà. Dove c’è una fiera l’orizzonte cambia. I personaggi, le merci, le cose, di questo romanzo tornano ogni anno a Natale. Sono il lattante e la mietitrice, la castellana e l’immaginario esotico della pagoda o della giapponesina, sono l’araldo che grida hare! hare! e il guerriero, la tigre e la giraffa. Sono i tarocchi del mercante in fiera. E ognuno di loro mette in piazza la tua fortuna o la tua sventura.

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