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Qualche tempo fa, ospite di Lilli Gruber a Otto e mezzo, Gianpaolo Pansa liquidava amaramente i ragazzotti di oggi come ignoranti presuntuosi pieni di niente. La passata settimana un autorevole sociologo si lagnava del fatto che «non ascoltano, non approfondiscono, sono ubriachi di se stessi» mentre Vittorio Sgarbi tuona quotidianamente alle capre. Quel po’ di professori che conosco si lamentano di un degrado intellettuale galoppante, malgrado per i giovani la cultura non sia mai stata così accessibile; degrado che viaggia di pari passo con una boria senza precedenti.

Il 4 febbraio scorso, le testimonianze raccolte sono state drammaticamente certificate dall’ormai nota lettera di 600 docenti universitari al presidente del Consiglio, al ministro dell’Istruzione e al Parlamento italiano in cui si segnalava con viva apprensione l’inadeguatezza espressiva, orale e scritta, della grande maggioranze degli studenti; priva addirittura «degli strumenti linguistici di base». L’analfabetismo funzionale, infine, è diventato sintagma diffuso perché sempre più diffusi sono gli analfabeti di tal fatta.

Al dramma pedagogico, si aggiunge una profonda mestizia dell’immaginazione. I postumi della Fashion week mi rendono sempre melanconico, ma questa volta percepisco una velatura più funesta, anche se conviene non dirlo a voce troppo alta perché in questi giorni puoi incrociare qualche creativo che col tuo mood crea un concept, quindi una capsule collection. E se le interviste del Milanese imbruttito convincerebbero anche il più entusiasta fra i democratici che il reddito di cittadinanza dovrebbe alternarsi a piani quinquennali atti a favorire la raccolta di banane nelle paludi di Comacchio… proprio in quei passaggi c’è un’epifania che regala paradossale conforto: «L’ignoranza vince sempre», prorompe uno degli intervistati in un passaggio vintage. E non importa che a dirlo sia un ragazzo verosimilmente impermeabile agli stimoli di Samuel Beckett e del Dalai Lama. Non conta che la risposta seguisse la domanda: «ignoranza o eleganza?»… perché il senso del tutto è stato colto. E’ uscito come una viverna a inghiottire le vane speranze e con esse la mia malinconia. Inutile combattere, tentare, l’ignoranza vince sempre. Benché ci sia ancora una caparbia vocina che dice: «Hai sempre tentato. Hai sempre fallito. Non discutere. Fallisci ancora. Fallisci meglio».

All’epoca del dogmatismo che accompagna i primi sentori della decrepitudine nutrivo un’idea piuttosto precisa sui responsabili dell’aggressione di questa regressione, e avevo trascurato i social network, da me semplicisticamente interpretati come meri riflessi di realtà: specchi. Tuttavia, è un po’ che faccio caso alla cosa e forse è proprio il caso. Ho sempre più l’impressione che il contenitore stia facendo impazzire la realtà… come la merda gialla di Pulp Fiction. Ci sono studi approfonditi su come il medium plasmi la prassi secondo le proprie regole interne. Il tweet è ormai diventato un’estensione dell’anima; il tasto «enter» sonda privilegiata dell’intelletto; la rotellina arcobaleno, ovvero lo spinning wait cursor, colora di sé la nostra soglia di attenzione. Inoltre, si è molto scritto su quanto gli anglicismi, le semplificazioni lessicali, gli acronimi… stiano mutilando il linguaggio così da sottrarre ossigeno al pensiero, e forse sono da ricercarsi in questi snodi le cause della situazione riscontrata dagli insegnanti. Ma io ritengo che a trasfigurarsi non si stata soltanto l’esperienza semantica, ma anche la realtà percepita.

 

Prendiamo un giornalista; una volta compilava un pezzo, quest’ultimo veniva pubblicato, magari anche sulle pagine di una testata nazionale, e che reazione seguiva? Il direttore sbottava per un’incongruenza, la mamma strillava giubilante «bravo il mio tatoamore!»; nel migliore dei casi quei tre o quattro amici intellettualmente avvertiti dicevano la loro. Oppure una recita scolastica di fine anno: cantavi «What is love» ancheggiando pericolosamente… e quanta gente avevi di fronte? 40-50 ragazzini? Ok. Oggidì ogniqualvolta intercetto un adolescente su Facebook vedo 3mila, 4mila contatti. Il mese scorso ero dal parrucchiere, artista della sforbiciata unisex, e una ragazzina si confidava con l’amica del cuore:

«Non è vero che sono come la Marinelli che s’è fatta con Billo solo perché è popolare» (mi sono segnato i nomi sul promemoria del cellulare per spirito documentaristico). «A luglio ho fatto un pompino col lieto fine al Teto che ha solo 100 follower su Instagram!».

Come è possibile che una ragazza di 16 anni abbia 5mila amici?! I più giovani mi perdoneranno l’ingenuità generazionale. A 16 anni io non le avevo nemmeno incontrate 5mila persone, persino considerando la somma di tutte le passeggiate per la vita consumate più i promiscui campi estivi dei lupetti. E poi ci si sorprende quando le cose sfuggono multimedialmente di mano.

Basta dar fuoco a un peto e si producono migliaia di visualizzazioni. Migliaia di commenti. Ieri un mio contatto ha premuto un like di prammatica a una fanciulla – ragazza qualunque, non Vittoria Puccini – il cui status era: «Oggi presa male». Bene; 1234 pugni di pollice.

Qual è allora la differenza fra una giovane che esce da scuola sbuffando un «oggi presa male» portato via dal vento… e la stessa interiezione con 1234 like? Sul concetto non ci sono trasformazioni; resta pregno di significato come prima. La trasfigurazione avviene nel soggetto, che inevitabilmente percepisce aura significante in qualcosa che è una semplice urinata emotiva. Ciò dunque non fa impazzire la realtà in quanto tale, ma la realtà percepita. Per cui la ragazza trova nella sua pisciatina un’epica esistenziale immediata; avverte la propria problematica come centro pulsante dell’universo.

Che ci siano migliaia di altri ragazzi, i quali, scrivendo la stessa cosa non magnetizzino alcun seguito – tipo il Teto – non cambia la questione. Per ottenere illusione fascinatrice basta pisciare in pubblico. Si sa che può bastare perché lo spirito gregario è travolgente come una slavina. Il reattore alle spalle formato da questa folla invisibile, eppure reale, produce una deflagrazione di autostima cretina, di egotismo demente, di esibizionismo irriflessivo, che crea una reazione a catena quando entra in contatto con le altre. Impregna, inzuppa di qualcosa il niente.

Naturalmente le teste vuote ci sono sempre state. I palloni gonfiati anche. Un tempo però bastava uno spillo per farli volare via. Oggi il vuoto si accresce a dismisura, ma non è più areiforme: è solido, stagno. Non basta più uno spillo per far afflosciare il recipiente, perché il consenso percepito, affermatosi subito e consolidatosi nel tempo, lo rende antiproiettile.

E comunque, keep calm and be social, perché bastano 100 follower per un happy ending masticazzo.

 

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