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Sabato sera ho visto, con colpevole ritardo e in un cinema monosala, il candidato a 14 premi Oscar, poi vincitore di 6 statuette… «La La Land».

 

 

Benché inspiegabilmente sprovvisto di personaggi e tematiche gay, il prodotto è in apparenza ruffiano e programmatico. La lavorazione ha seguito quell’afflato nostalgico e new vintage che il marketing, in mancanza di idee inedite, impone all’intero scibile umano, ed ha eseguito uno spartito facilmente orecchiabile, ben diretto dalla musicalità registica del giovane Damien Chazelle. Il paradosso del film – ironico e tragico – è che rappresenta quasi compiutamente ciò che la sceneggiatura propone al suo protagonista, Sebastian Wilder.

 

Purista naif del jazz autentico, del suo spirito originario e della sua prammatica creatrice, bianco in un milieu tradizionalmente afroamericano, il pianista Sebastian si piega alle logiche commerciali per poter incontrare il gusto fatuo, volgare dei contemporanei e quindi ottenere successo, venendo alla fine sconcertato. Allo stesso modo si comporta la produzione con il musical dell’epoca d’oro: gli estrae sotto anestesia lo spirito del tempo, lo camuffa e lo «vende» nella contemporaneità adattandolo al gusto del pubblico per trovare affermazione, ottenendo infine lo stesso risultato del suo personaggio principale.

 

Se fotografia e colonna sonora, vittoriose al Dolby Theatre, cullano deliziosamente il divertissement, la distanza fra i passi di danza e il guardaroba di Ryan Gosling da quelli di Fred Astaire e Gene Kelly segnano il distacco fra questa pellicola e il passato. «La La Land» era candidato anche per i migliori costumi, ma grazie al cielo Mary Zophres – perfetta per lo scabro e riarso Texas dei Coen, meno per atmosfere da «Cenerentola a Parigi» – non ha ottenuto il premio. La fuoriclasse italiana Milena Canonero sì avrebbe saputo servire con garbo questa storia instillandone un po’ di pertinenza, ma è proprio nella maldestrezza di questi dettagli impropri, nella sensazione di aspirazione inappagata, che germoglia il pathos e l’esecuzione trova pieno riscatto.

Esattamente come sperimenta il protagonista, infatti, l’amore viscerale per l’originale, il ricordo ancora palpitante per il vero della finzione che fu, si percepisce, brucia sotto le braci. E dietro la patina ammiccante, sbarazzina e finta, si respira una malinconia ardente e reale, magistralmente resa dagli attori protagonisti, fra i quali c’è toccante alchimia. Emma Stone, premiata con l’Oscar, è abilissima a comunicare il languore esistenziale della giovinezza e Gosling – pur se lontano dalla dimensione tragica di «The Believer» – trasuda quella virilità cagionevole capace di trafiggere.

 

La profonda empatia che si instaura con la storia sembra quasi un riflesso pavloviano per lo spettatore più sensibile, il quale si ritrova a essere come un bambino che scarta frettolosamente l’azzimata confezione per arrivare prima al regalo. Ed il regalo sono i personaggi. I cui interpreti, se non cantano, non ballano, non occupano lo spazio scenico come quelli chiamati a imitare e non ne hanno neppure lontanamente l’eleganza, recitano meglio e commuovono di più, perché trascinano nel cuore l’incantato disinganno della loro epoca, la nostra, che ha sostituito al sogno il suo feticcio.

 

 

 

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