Uaind of Change
Quando frequentavo l’università e negli anni immediatamente successivi ricordo che la mia maggiore preoccupazione era di poter arrivare preparato alla trincea lavorativa. Sarò in grado di farcela? Le mie competenze saranno sufficienti? Il mio inglese e il mio francese abbastanza disinvolti? Perfezionismo e pigrizia, le due forze principali della mia indole, si dividevano le giornate; quando lasciavo prevalere la seconda temevo che il primo ne avesse a male e con lui il mio futuro. Ancora dopo aver superato l’esame da professionista in una dimensione ormai dilettantistica come quella del giornalismo, leggevo, investigavo, esaminavo, ben oltre la soglia del piacere. Poi la trincea lavorativa è arrivata. E ora, a quasi 40 anni, ho delineato un’idea d’insieme che prescinde dal mio percorso e vola più alta dalla mia collocazione. E mi vien da ridere; mi vien da piangere.
Ho perso tempo. Questa è la verità. Tanti di noi hanno perso tempo. Certo, si opinerà, un essere umano studia, si documenta, si perfeziona, innanzitutto per se stesso. L’apprendimento è un fine in sé. Ma anche spassarsela, oziare, studiare per gusto ciò che ci nutre di più, sono fini in sé. Ed io, come molti di voi, ho investito risorse per aumentare qualcosa che era già sovrabbondante. Da che lavoro non ho fatto altro che dissimulare la mia conoscenza. Non ho fatto altro che abbassare il tiro, ingrassare la sottigliezza, ingoffare l’accuratezza. Tutto quello che so o sono, che non è molto, è sempre troppo. Non serve. Non è richiesto. E’ un seccante fronzolo. Pensiamo alla pestifera, più che perfida, Albione, che ci costrinse a malinconici soggiorni estivi nel Kent, lontani dalle automobiline di Forte dei Marmi. Ancora ricordo le parole rintoccanti di papà, simili, immagino, a quelle dei vostri padri: «Senza l’inglese non vai da nessuna parte!». Non lo avessi studiato, fossi andato più spesso in Versilia e meno a Canterbury, magari oggi sarei Ministro degli esteri o perché no? Presidente del consiglio.
Poletti afferma il vero quando segnala l’irrilevanza del curriculum, manifestando la propria tragica inadeguatezza nel non capire che il suo ruolo esiste precipuamente per scongiurare tale irrilevanza. Quando arrivai al mio primo colloquio di lavoro, da «consigliato», il giudicante non aveva letto il mio cv. Neppure le mie note biografiche, poiché mi credeva torinese. A tal proposito, segnalo che quello qui a fianco è errato. Dopo una «tesi» in Storia del pensiero politico contemporaneo; non esisteva un corso di laurea con quel nome e forse neppure adesso esiste. Mi auguro si possa correggere altrimenti rischio davvero un Ministero. Alcuni dei direttori che ho incrociato sul cammino, poi, mi scrivevano mail senza punteggiatura, senza maiuscole, insaporite da refusi – loro, che i miei articoli erano chiamati a giudicare – forse per ostentare attraverso la sciatteria una vita impegnata in cose più importanti della dignità ortografica. Dall’altra parte, una generazione, quella dei trenta-quarantenni, convinta che il curriculum fosse la Magna Charta Libertatum, gente dieci volte più qualificata di me che oggi vende arrosticini a Lido di Camaiore o scrive su periferici blog di elettronica. E poi i recenti sberleffi, summa theologiae di un degrado istituzionalizzato, nel senso letterale della parola: «The uaind of change» Alfano Ministro degli esteri. Raggelante.
Ma se Alfano rappresenta il più puro estratto di cialtroneria da esportazione e fa quasi colore, pur nel senso deteriore del termine, Valeria Fedeli Ministro dell’Istruzione è una scelta da daltonici del pensiero. Il suo curriculum sarebbe stato insufficiente per fare la segretaria in un’azienda di pompe idrauliche, ma è sufficiente per amministrare la pubblica istruzione. In più la signora mentì sul titolo di studio, cosa per la quale Giannino, Oscar per i costumi, fu spernacchiato anche dai bidelli delle elementari e quindi emarginato. Un’autorità, il capo dicastero dell’istruzione, che dovrebbe essere sommo sacerdote fra i magnifici rettori dell’elisio in terra dei sapienti, una figura in grado di citare dal bidet l’Emilio di Rousseau; e invece è diplomata all’Unsas.
E ancora Marianna Madia, mammina sprint tanto carina ed ecosostenibile, ma capace di semplificare più che altro scopiazzando la tesi di dottorato. Per tutelare la salute pubblica, della mente come del corpo di una comunità, in pochi lustri siamo passati da Tullio De Mauro e Umberto Veronesi a Valeria Fedeli e Beatrice Lorenzin: à la santé!
Una laurea non è tutto, certo. E neppure un Master alla Business School del Sole24 Ore. Ma il tutto è una barzelletta che non fa ridere. Il mediocre che si circonda di mediocri per non sentirsi mediocre, come già puntualizzato in passato. Un meccanismo istituito a paradigma dell’esistente. Ai massimi livelli. Per questo ho trovato refrigeranti, balsamiche, le parole di Stefano Parisi ieri sera da Lilli Gruber; parole con le quali il leader di Energie per l’Italia ha riportato al centro della discussione la selezione della classe dirigente e la qualità tangibile della politica. Con garbo, ma guardando negli occhi, come nello stile dell’uomo. Mettere la persona giusta al posto giusto non può essere una vana aspirazione di principio, ma l’architrave di una reazione culturale. E sull’energia di questa reazione verrà misurato il nuovo movimento di Parisi, che potrà essere folata o venticello. Nel nostro Paese, la chiacchiera da calciotto di Poletti deve essere culturalmente sostituita dal vaglio della competenza, dell’adeguatezza, che, come avevo già avuto modo di segnalare da queste pagine, nulla hanno a che fare con il mitologico «merito» perché sono categorie misurabili dall’intelligenza.
A questo punto dello sfogo, generalmente arriva l’uomo di mondo che ti ricorda come l’Italia sia un Paese provinciale, arretrato, che ti rammenta come nella galassia anglosassone si viaggi ad altri livelli di sviluppo, dove c’è corrispondenza fra ruolo e qualifiche, fra autorevolezza professionale e posizione occupata. Così ti attacchi definitivamente al Trump.