Il vegano soffre come un animale
Sulla questione veganismo-vegetarianismo-animalismo devo confessare ambivalenza. Riconosco di viverla con afflizione e tormento. Da un lato, al palato, ho sempre amato carni e salumi più di ogni altro alimento; sono di Piacenza, quindi l’inclinazione segue la cultura gastronomica, o viceversa. Dall’altro, non riesco a mangiare animali di cui ho avuto esperienza domestica o con cui ho sperimentato una qualche empatia: quindi cavalli, agnelli, conigli. Oltre a cani e gatti. Probabilmente, se avessi avuto maialini, vitellini o anatroccoli in giro per casa, oggi sarei vegetariano. Ma so essere un’ipocrisia o al meglio una posizione arbitraria. Anche perché il discorso andrebbe allargato all’abbigliamento, e mentre scrivo tengo il bischero prudenzialmente incarcerato da una cintura in pelle di alligatore mississippiensis, con cui talvolta si azzuffa, e i piedi al caldo in una custodia stringata di cordovan. Al di là dei fondamentalismi vegani, che sobillano costate di Angus, trovo assurda la sproporzione fra l’umanizzazione di gatti e cani, ormai coccolati più di molti bambini – compreso il mio quadrupede, che è simile a un frugoletto quanto la lonza dantesca – e la reificazione di altri animali, percepiti e utilizzati come cose. Avevo già accennato a questa inquietante doppiezza in data 26 marzo e trovo opportuno approfondire.
Chiunque abbia avuto contatto con un cerbiatto, giusto per mettere a fuoco una specie non domestica, sa che mostra comportamenti e sentimenti del tutto simili a quelli di un puppy. Eppure ne facciamo serenamente spezzatino dopo vigliacca fucilazione. Forse un giorno sembrerà mostruoso ciò che oggi infliggiamo a molte specie animali quasi come oggi sembra mostruoso ciò che infliggevamo agli schiavi, ad alcune specie umane. D’altro canto, nel tribunale della mia coscienza, la difesa mi ricorda che la «natura» non è solo il micetto che gioca con il leprotto nei video di Facebook, ma anche il ghepardo che azzanna l’antilope, il ragno che cattura l’ignara creatura nella sua tela, il pesce grosso che mangia quello piccolo. Pronta obiezione dell’accusa che rimanda all’urgenza della sopravvivenza, all’incapacità di distinguere il bene dal male, all’assenza di crudeltà. L’animale uomo governa il libero arbitrio e non vive nel regno della necessità, quindi avrebbe cristianamente e/o kantianamente il dovere di far volare gli angeli della propria natura. E invece è predatore per scelta, aguzzino e boia. «Chi tirerà fuori anche un solo topo da una gabbia sperimentale sarà scritto nei libri delle Sibille angeliche».
Nell’attesa di un’epifania morale, interculturale, di portata universale, credo sarebbe civile perlomeno garantire una vita sana e una morte decente, se non “naturale”, agli animali allevati per essere macellati… anziché un incubo da lager. Marine Le Pen ha sensibilizzato l’opinione pubblica francese sulla necessità di imporre ai macelli lo stordimento dell’animale prima del suo dissanguamento. Chiunque sia stato testimone di ciò che avviene in quei luoghi e abbia ancora un cuore nel petto, non potrà che convenire.
Gli spiriti vasti, profondi e sottili che solitamente chiamo a deporre in questi quaderni si trovano perfettamente allineati sul tema. Adorno e Ceronetti, in particolare, chiariscono come la violenza esercitata sugli animali, quando depurata dalle manipolazioni sociali della percezione, non sia poi diversa da quella esercitata sugli esseri umani:
«Le atrocità sollevano un’indignazione minore, quanto più le vittime sono dissimili dai normali lettori, quanto più sono “more”, “sudice”, dago. Questo fatto illumina le atrocità non meno che le reazioni degli spettatori. Forse lo schema sociale della percezione presso gli antisemiti è fatto in modo che essi non vedono gli ebrei come uomini. L’affermazione ricorrente che i selvaggi, i negri, i giapponesi, somigliano ad animali, o a scimmie, contiene già la chiave del pogrom. Della cui possibilità si decide nell’istante in cui l’occhio di un animale ferito a morte colpisce l’uomo. L’ostinazione con cui egli devia da sé quello sguardo – “non è che un animale” – si ripete nelle crudeltà commesse sugli uomini, in cui gli esecutori devono sempre di nuovo confermare a se stessi il “non è che un animale”, a cui non riuscivano a credere neppure nel caso dell’animale».
Ma nell’asettica amministrazione dell’orrore che è diventata l’industria planetaria del macello (ogni anno vengono uccisi 50 miliardi di animali, pesci esclusi), l’argomento più persuasivo e potenzialmente salvifico risale al 1789, a Jeremy Bentham:
«C’è stato un giorno, e mi rattrista dire che in molti posti non è ancora passato, in cui la maggior parte del genere umano, grazie all’istituzione della schiavitù è stata trattata dalla legge esattamente nello stesso modo in cui, per esempio in Inghilterra, sono trattate ancora le razze inferiori di animali. Verrà il giorno in cui il resto degli esseri animali potrà acquisire quei diritti che non gli sono mai stati negati se non per mano della tirannia. I francesi hanno già scoperto che il colore nero della pelle non è un motivo per cui un essere umano debba essere irrimediabilmente abbandonato ai capricci di un torturatore. Si potrà un giorno giungere a riconoscere che il numero delle gambe, la villosità della pelle o la terminazione dell’osso sacro sono motivi egualmente insufficienti per abbandonare un essere sensibile allo stesso destino. Che altro dovrebbe tracciare la linea invalicabile? La facoltà della ragione, o forse quella del linguaggio? Ma un cavallo o un cane adulti sono senza paragone animali più razionali e più comunicativi di un bambino di un giorno, di una settimana, o persino di un mese. Ma anche ammesso che fosse altrimenti, cosa importerebbe? Il problema non è: «Possono ragionare?», né: «Possono parlare?», ma: «Possono soffrire?».