Elogio della discriminazione
Chi ha avuto la pazienza di seguire un poco questo blog – peraltro ripagata da un’inesauribile bordata di risate e trastullo – avrà notato che sono spesso costretto a occuparmi di demistificazione. Viviamo in tempi subdoli, di limaccioso livellamento, e tutto sembra esserne ammorbato. Le parole ne sono il primo funesto presagio. I vocaboli possono essere un incantesimo o una fattura; se sono al servizio della verità innalzano fino alla santità, ma quando sono ancelle d’una Circe bagasciona tramutano in bestia chi si lascia affascinare dal loro tintinnio. Oggi mi voglio occupare della parola «discriminazione». Confessiamolo, anche noi liberi pensatori abbiamo avuto un subitaneo moto di repulsa. Lo stesso che avremmo avuto, in epoche pie, per un volgare affronto alla virtù della Vergine. Eppure siamo in errore.
Discriminare significa infatti separare, distinguere, discernere (dal lat. discriminare, der. di discrimen «separazione», da discernĕre «separare»). Ha lo stesso significato e ha subito lo stesso destino del verbo greco krino, separare, dividere, decidere in giudizio. La parola critica, da coraggiosa reazione al dogmatismo, da nobile momento di esame dei limiti del sapere, di ricerca del vero, del buono, del bello, ha assunto nel senso comune una connotazione negativa. Dispregiativa. Nessuno può più criticare niente e nessuno; perché la tolleranza universale non ammette critiche. Tutti sono suscettibilissimi e ne hanno ben donde. Eppure noi discriminiamo in continuazione e senza particolari sensi di colpa, per ora: dal salumiere, nell’implacabile cipiglio che assumiamo durante la scelta del prosciutto, quando ci tocchiamo le balle per l’arrivo di una mail, cestinandola, e in un’interminabile sequela di altri snodi quotidiani. La scelta del nostro partner, dopotutto, è anch’essa una palese discriminazione. Pur attenendoci alle sacre scritture del pensiero autorizzato – che interpretano la discriminazione come emarginazione di qualcuno in favore di qualcun altro – ogni volta che scegliamo una compagna o un compagno, ne discriminiamo di alternativi che abbiamo conosciuto, che conosciamo o che potremmo conoscere. Quando una dama seduta nel dehors di un club rifiuta le avances di un gentiluomo e accetta quelle di un altro… forse non discrimina?
L’acuminato pensatore del reame di Perbenino a questo punto obietterà che discriminare per motivi di religione, di razza, o per le preferenze sessuali, questo è incivile, barbaro, indegno di un uomo dabbene. I profeti della differenza, della pluralità, diventano improvvisamente conformisti, egualitaristi, e pretendono lo stesso trattamento per tutti, senza distinzioni. Ma la differenza separa. La differenza… differenzia. La tolleranza coatta, al contrario, è profondamente eterofoba: concede etichette arcobaleno per dare l’illusione dell’individuazione mentre converte tutto al vantablack della merce, della cosa.
Nello spazio del frame socialmente lecito posso rifiutare una fanciulla perché i suoi tratti mi lasciano freddino, perché l’odore della sua pelle non accende i miei feromoni, ma non posso respingerla in quanto asiatica, per esempio. Eppure la razza influenza i tratti, gli odori, quindi ciò che si cerca ideologicamente di negare si scorna con gli irriducibili segnali dei sensi e crea un ridicolo cortocircuito. Certo ci appare arbitrario chi dichiara di non gradire gli asiatici, così, per inclinazione. Ma un’idiosincrasia è meno arbitraria quando si riversa sul singolo? O lo è forse di più? Una ragazza bianca, cristiana, italiana – iscritta cioè a tutte le maggioranze inopportune – cozzarella, ranocchiesca, che nessun ragazzo degna di uno sguardo… ha per caso meno ragioni per dolersi della discriminazione che riceve? I giudizi estetici come quelli di valore sono per loro natura discriminanti. Discriminare è infatti distinguere: il bene dal male, il buono dal cattivo, il bello dal brutto. Così, dopo averla discriminata in quanto bruttarella, magari la rivaluteremo separando la sua umanità dal suo aspetto e, se ne sarà ricca, sapremo comunque apprezzarla, forse addirittura amarla. Smettere di separare, di setacciare, di problematicizzare, significa castrare il giudizio e prosciugare il libero pensiero.
Esistere liofilizzati dal discernimento è condizione cui veniamo quotidianamente addestrati dal modello prefabbricato di dominio, che solleva il singolo dalla fatica del concetto proponendo un orizzonte già regolamentato, con tutti i compitini da svolgere per essere promossi; con l’elenco delle categorie da non offendere per passare da persona coltivata e civile. Così possiamo lasciar scorrere quelle che crediamo essere le nostre idee, le nostre convinzioni, i nostri gusti, nel canale di scolo della sola ideologia sopravvissuta. Una testa grossa del passato distingueva fra ricettività e spontaneità. Io sono ricettivo nel momento in cui vengo impressionato dai dati sensibili, subisco passivamente il reale; spontaneo quando governo l’attività libera e volontaria del pensiero. Oggi il cittadino indottrinato è ridotto a mera ricettività: un occhio che guarda, ma non vede; un orecchio che sente, ma non ascolta; un cuore che batte, ma non palpita. Tuttavia la predilezione naturale è troppo testarda anche per la diabolica pervicacia di queste manipolazioni. E c’è chi, malgrado il modello di bellezza ibrida e monoculturale propagandato, continuerà visceralmente a preferire le olandesi alle asiatiche – o viceversa – incurante di quanto discriminatorie possano risultare le proprie pugnette.