Vittorio_Emanuele_II_e_Napoleone_III_a_Milano

Giovedì pomeriggio sono al bar sotto casa per consumare qualche fetta di crostata quando noto un giovinastro abbarbicato sul piedistallo di una colonna dell’Arco della Pace. L’acrobatico monellaccio si dondola come una bertuccia, bullandosi con gli amici rimasti a terra in vociante ammirazione. Arrampicata libera non particolarmente impegnativa da un punto di vista tecnico, eppure mitologica sul piano dell’imbecillità, anche per la necessità di calpestare il bassorilievo dell’Ercole di Gaetano Monti per arrivare ad abbracciare le scanalature del fusto. In genere la marmellata di albicocche mi rende zuccherino, ma valutato il ripetersi ormai quotidiano di questo fanciullesco vandalismo – con un paio di bande a bivaccare sotto e sopra l’Arco – decido, forse con piglio pedantesco, di telefonare alle forze dell’ordine.

 

Compongo il 112 e tosto risponde un centralinista, il quale mi intima di esporre ciò che mi angustia, non prima di aver denunziato i miei dati anagrafici. Racconto della scostumatezza in fieri più o meno come segue: Gentilissimo, da giorni sono testimone di una caparbia inciviltà in corrispondenza dell’arco trionfale di Piazza Sempione a Milano. Quando passeggio nei paraggi, la mattina come a tarda sera, non posso fare a meno di notare gruppi di italianissimi perdigiorno che campeggiano sotto le arcate bevendo birra, facendo tardi, accidenti. A ciò si aggiunga l’abitudine di ascoltare musica a volume espansivo – le cui allitterazioni torturano il sensibile cuore del contribuente, prima ancora dell’orecchio – e il gusto di affrescare le ispirazioni neoclassiche del Cagnola con romantiche intitolazioni a graffito tipo… «Pulce». Proprio mentre le parlo, il più audace di loro è impegnato in un’ascesa che potrebbe giungere sino alla Sestiga di Abbondio Sangiorgio. Crede sia possibile far decollare al volo una volante per segnalare a questi sfaccendati che non è quello il luogo più acconcio dove attendarsi?

 

Lo zelante impiegato, comprensibilmente tediato, mi passa l’Arma dei Carabinieri. Nell’attesa ordino un’altra fetta di crostata, ai mirtilli: i frutti di bosco mi rendono indulgente. All’apparecchio giunge una voce di chiara efficienza meridionale che con tono implacabile mi domanda di raccontare di nuovo l’angosciosa vicenda. Ripercorro le circostanze più o meno con la stessa enfasi di prima. Per fortuna il carabiniere mi interrompe a metà esposizione, comprendendo che di un caso così delicato doveva occuparsi la Polizia Locale, e mi mette di nuovo in attesa. Ora, difficile dire quanto io abbia effettivamente atteso, ma posso affermare di aver fatto in tempo a terminare la seconda fetta di torta e un espresso giunto bollente. Finalmente il tu-tu con problemi di instradamento che martellava in sottofondo, irritante quasi come un madrigale del Truceklan, si interrompe… e arrivo a parlare con un pubblico funzionario. Mentre rivivo a suo vantaggio quell’esibizione di villania metropolitana, il buon uomo taglia corto e mi assicura che manderà al più presto una pattuglia. Aspetto. Osservo. Vigilo l’istante con imminenza d’attesa. Non arriva nessuno. Ma deve venire, verrà, se resisto a sbocciare non visto, verrà d’improvviso quando meno l’avverto. Alle 17.53 finalmente una Panda bianca e gialla fa irruzione sul selciato pedonale di Piazza Sempione. Malauguratamente è quella dell’Istituto privato di vigilanza La Folgore.

 

 

Torno verso casa disilluso, oltraggiato. Prendo il cane al guinzaglio e con le orecchie basse, il muso lungo, la coda fra le gambe, esco per passeggiarlo. Giunto sotto la maestà del monumento, noto che i sentimenti antifrancesi o forse antiasburgici dei molesti pischelli sono ancora piuttosto eccitati. Alcuni si baloccano con un pallone, sfruttando come porta improvvisata il Congresso di Vienna di Gianbattista Perabò. Altri due, senza alcun sentore di omofobia, stanno urinando affiancati sotto una delle arcate minori. Mentre sono sul punto di suggerire loro di pisciarsi reciprocamente nel culo al fine di non lordare i candidi marmi del monumento, viro verso l’amore per la sapienza e fingo che il quadrupede altro non sia se non Glaucone, figlio di Aristone; mi arriccio dunque la barba come Socrate… e intavolo un dialogo per risolvermi ad agire saggiamente.

 

 

Come distingueremo, amico mio, un filosofo da chi non lo è?

«Per Zeus, proprio non saprei!», esclamò.

Io credo che dovremo tenere a mente innanzitutto un aspetto, caro Glaucone. Che la sua anima non celi qualche meschinità, perché la meschinità spirituale è l’ostacolo peggiore per chi voglia aspirare a comprendere instancabilmente la totalità delle cose umane e divine.

«Questo è verissimo», disse.

Se invece l’intelletto è dotato della grandezza e della visione dell’insieme dei tempi e degli esseri, credi che esso possa considerare la vita umana come una cosa importante?

«Impossibile!».

Dunque un tal uomo non riterrà un male neppure la morte?

«Per nulla! Ma qui, savio Socrate, se andiamo a prendere per le orecchie quei balordi si rischia di essere trascinati per Milano da uno di quegli orridi scooter a miscela sulle note di Insta Lova; e ciò rappresenta qualcosa di ben peggiore della morte!», replicò.

Parli con avvedutezza, giovane amico, ma una natura vile e meschina non ha nulla a che vedere con la vera filosofia e quindi dobbiamo osare!

 

 

Dopo aver strizzato metaforicamente i testicoli di Glaucone, cosa che lo rende visibilmente irascibile, mi avvicino in punta di paideia ai due sfrontati orinatori.

 

 

Ehi, cazzimatti, capisco che quando scappa scappa, ma se l’animale qui presente riesce a trattenerla fino all’area cani, credo sia impresa possibile anche per voi… sbaglio?

Mentre il più piccolo dei due è ancora intento a sgrullarselo, il compare, che si era da poco ricomposto, replica con studiata strafottenza: «Zio se lo fanno i clandestini dimmerda va bene e se lo facciamo noi invece no?!».

Strattonato da quella inopinata parentela e dalla natura dell’argomentazione, mi divincolo e reagisco:

Tu dunque paragoni te stesso a un immigrato clandestino?

«Problemi zero zio, io non sono razzista».

 

 

Credo che ivi anche Socrate avrebbe tirato un Patroclo cavaliere e due Madonne al cielo. Così osservo il cane, tornato in sé, del tutto libero di esprimere la sua esuberante mordacità… e lo slego.

 

 

 

 

Qual è dunque la morale di questa favola, che purtroppo è storia, adorato Glaucone, figlio di Aristone?

Senz’altro l’uomo che si inganna e quello che intende ingannare punteranno il dito contro la nostra inciviltà; affermeranno che la sfrenatezza e la volgarità sono anche, se non soprattutto, indigene. E che invece di biasimare lo straniero, sarebbe bene pensare a noi stessi. Ma proprio sulla base di tali eristiche obiezioni, credo che la morale autentica emerga con chiarezza allo sguardo del filosofo ed è la seguente: se non siamo in grado di infondere sapienza, temperanza, coraggio e giustizia neppure nell’animo della nostra meglio gioventù, cresciuta con noi, fra le mura della città che abbiamo fondato, come possiamo pensare di farlo con un groviglio di selvaggi forestieri, ignari persino delle leggi di una democrazia? E come possiamo pensare di recuperare quei giovani sbandati, l’ethos del popolo di domani, lo spirito di cittadinanza dei ragazzi, se questi osserveranno i valori che vorremmo imporgli come sacri… costantemente trascurati e vilipesi da chi giunge in città con il nostro aiuto e sotto la nostra tutela?

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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