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Mentre riguardavo Il Padrino – Parte II in ossequio al titanico Gastone Moschin, ivi nel ruolo di Don Fanucci, pensavo alla grande recita nazionale. Se le meschinità, le tare, i vizi degli italiani sembrano sempre gli stessi, è certamente cambiata la superficie riflettente e con essa la portata e il rifratto di quelle stesse debolezze. Un tempo – in un elenco volutamente antirigoristico – c’erano De Sica, Rossellini, Visconti, Risi, Antonioni, Leone, Fellini, Monicelli, Soldati, Pasolini, Sordi, Loren, Lisi, Volonté, Gassman, Tognazzi, Moschin, Villaggio, Petri, Mangano, Bava, Pedersoli, Fabrizi, Troisi, De Filippo, Mastroianni, Randone, Magnani, Ferrati, Albertazzi, Rossellini, Rosi, Celi, Brignone, Salerno, Vianello, Manfredi, Totò… ma c’erano soprattutto quegli uomini e quelle donne celati nei maestosi artisti. Senza dimenticare un ricchissimo substrato di magnifici caratteristi e doppiatori. Uomini e donne che incarnavano, fuor di grandiloquenza patriotarda, l’Italia. Oggi, i rari Servillo, Giannini, Bellocchio, Amelio, Tornatore, pur ammirevoli, non hanno l’afflato simbolico di chi sgorga dall’anima viva di un popolo. La stessa irriducibile individualità espressiva di Bertolucci impedisce di farne un campione popolare. Mentre Moretti deve ancora capire se sotto questi chiari di luna lo si noterà di più stando in disparte o non venendo per niente. Sono piuttosto gli attori da fiction, o al massimo le Bellucci, gli Accorsi e i Muccino… i riferimenti di una maggioranza che potrà anche onorare i primi, ma sogna di identificarsi con i secondi. Le poche maschere di talento autentico ancora in vita, come Benigni e Verdone, non hanno avuto, per ragioni differenti, la forza di affermarsi come ambasciatori spirituali di un comune sentire. Mentre i grulli veri – quelli che con la farsa imitano la vita – vengono presi a tal punto sul serio da diventare presidenti del consiglio.

 

 

 

Nei pur simpatici Gassman, Tognazzi e De Sica d’attualità, invece, si scruta la distanza siderale con i Gassman, Tognazzi e i De Sica di ieri; si percepisce la regressione in atto. Che da un’altra angolazione già avevo esaminato nel tragico, quanto emblematico, parallelo fra Gianni Agnelli e Lapo Elkann, sul quale torno per un attimo. Limitandoci all’aspetto formale, il dramma di Lapo è che rende caricaturale il meglio dello «stile italiano», che lui ha ereditato, ma impunemente oltraggia. E lo dà in pasto alla sesquipedale ignoranza delle masse. Per la gelida cronaca recente, Elkann non indossava “ballerine con fiocco” al Franca Sozzani Award di Venezia, come scritto dal 101% dei commentatori, compresa Anna Rossi de il Giornale; bensì delle pumps, che rappresentano l’apogeo dell’eleganza formale maschile per quanto concerne la calzatura. Reinterpretandole a suo modo, con originalità da paiass, sotto un «discutibile» smoking in solaro, ha così ridicolizzato l’ultima orma di signorilità che ci restava.

 

 

Anche nella musica, seppur non sia possibile immaginare l’epifania di nuovi Bertoli o De André, la finezza sociologica e la rabbia antisistema del rap italiano rappresentano, specie nelle ultime declinazioni, la nemesi di una nazione. La rapidità con cui questa cifra stilistica subumana si sta propagando fra le nuove generazioni, senza distinzione di estrazione, è terrificante. Ci sono poche cose sulla terra che mi infondono mestizia, afflizione, quanto quel tragicomico maledettismo da hinterland milanese: un disagio esistenziale inconsolabile, senza scampo. Una lavatrice che brucia in un campo nomadi, gli spettacoli di mimo del circo bulgaro, una bambina di dieci anni che bestemmia, per quanto atroci, sono comunque meno desolanti di una strofa come “bella raga, giorno di paga, lo prende in bocca e lo fa sparire tipo maga”. Se Dio non ci avesse portato in dono Capossela, ci sarebbe di che dubitare della sua esistenza, almeno in questo Paese.

 

 

Tornando al cinema, quando a posteriori ammiriamo le sublimi schermaglie fra il giudice Mariano Bonifazi (Ugo Tognazzi) e l’imprenditore Lorenzo Santenocito (Vittorio Gassman) nel lungometraggio In nome del popolo italiano di Dino Risi, rivediamo i tipi umani di oggi e le loro piccinerie; ma l’immensità di chi li tratteggiava e di chi li personificava aveva il prodigioso potere di elevarli, affrancando un popolo intero.

 

 

 

 

Se prima era dunque agevole riconoscere la nostra grandezza proprio nella rappresentazione delle nostre miserie, oggi nelle miserie che rappresentiamo c’è solo l’iperrealismo della nostra pochezza. Perché da La grande guerra uscivi, malgrado tutto, fiero di essere italiano; mentre da La grande bellezza esci vergognandotene un poco.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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