Motherfucking Trump
Dopo Meryl Streep e Hollywood è la volta di Steph Curry, Lebron James, Kobe Bryant e l’Nba, transitando da Colin Kaepernick per alcune squadre di football della Nfl. Il nemico da abbattere ovviamente l’amministrazione Trump. «Non gradisco il comportamento del Presidente e ciò che dice», ha dichiarato la stella dei Warriors boicottando il rituale invito alla Casa Bianca, indirizzato alla franchigia campione della Lega. Ancor più risoluto “The Chosen One” in un tweet: «Andare alla Casa Bianca è sempre stato un onore almeno fino a quando non sei arrivato tu». Ovvero, l’amore per la democrazia elettiva almeno fino a quando vengono eletti quelli che vanno bene a noi. Il sogno americano che vivono quotidianamente anche i democratici di casa nostra. Kobe è stato invece più didascalico e patriottico: «Un presidente il cui nome evoca rabbia e divisione, le cui parole ispirano dissenso e odio, non renderà l’America Great Again». Qui l’equivalenza dissenso-odio è esplicita. Chi non segue la corrente autorizzata è un agente dell’odio. Curioso che tutto ciò arrivi da campioni dell’identità afroamericana, forgiata dal dissenso e poi lanciata alla conquista della sacrosanta emancipazione. A tal punto compiuta, almeno per loro, da permettere allo stesso James di portare a casa 86 milioni di dollari in questo 2017. Comprensibile, dunque, che “The King” possa permettersi di dare dello “straccione” finanche a Trump.
Ciò che fa sorridere di questa parodia benpensante che accusa il nuovo presidente di razzismo, di nazionalismo, maschilismo, misoginia, buzzurraggine… è la totale assenza di equanimità. Tipica della malafede e/o della cretineria. Trump è uno zoticone, non lo mettiamo in discussione. Non un gentiluomo edoardiano, quantomeno. Ma io mi domando senza retorica: le anime belle in sfilata per il rispetto verso le donne, per esempio, dov’erano quando Eminem, vincitore di un Oscar nella civilissima Hollywood di Meryl Streep, cantava «Slut, you think I won’t choke no whore…til the vocal cords don’t work in her throat no more?!»? O quando Snoop Dogg, obamiano convinto e grande amico di Lebron, intonava un suadente «Bitches ain’t shit but hoes and tricks…lick on these nuts and suck the dick»? Certo, Eminem, Snoop Dog, Kanye West, Jay Z o altri gentiluomini – questi più squisitamente vittoriani – non si sono ancora candidati alla presidenza degli Stati Uniti; ma quando esprimevano la propria idea di donna venivano premiati e chiamati «artisti». La contraddizione non si acquieta nel mezzo, ma si estende allo scopo, alla glorificazione della contingenza che celebra come libera espressione ciò che non è altro se non autarchia della produzione di merci «artistiche» e la brutalità del cattivo gusto di coloro che la dominano. Questi interpreti venivano issati a modelli planetari, con un rimbalzo sociale ben più devastante di quello che possa causare Trump con qualche guasconata. Come è evidente nel degrado antropologico delle nuove generazioni italiane, che quella traccia hanno assorbito e reso macchietta epocale.
Se il linguaggio dei repubblicani è tradizionalmente gretto, per semplificare, come potremmo definire quello del maître à penser gangsta rapper? Come caratterizzare chi si trastulla con un diamante incastonato fra i denti, una mazzetta di dollari nel pacco e due fanciulle al guinzaglio intonando i suoi valori di emancipazione: money, power, respect? Un messaggio che renderà l’America Great Again? Ovviamente usciti dal ghetto si imborghesiscono tutti un po’, provano a fare gli elegantoni e a sposare le giuste cause, proprio come i nostri rivoluzionari. Ma è bene rammentare: You can take the man out of the ghetto, but you can’t take the ghetto out of the man. Questo vale anche per i bocconiani da Leoncavallo, ma al contrario. Puoi strappare un uomo dalla Bocconi, ma non potrai mai strappare la Bocconi da quell’uomo. Tuttavia, anch’io, come Nanni Moretti, ritengo che le parole siano importanti e sia imperativo dirozzare il linguaggio. Se ci sono ancora molti «artisti» che pronunciano «nigger» nei loro componimenti, io ho voluto dissociarmi con l’eloquenza dei fatti mostrando come possiamo cambiare le cose.
Lo scorso maggio accompagnai un noto giornalista a recuperare il figlio Luca, 12enne, alla sua scuola media meneghina. Il giovinastro si presentò con un amico, tipico giovialone occhialuto e sovrappeso. «Lui è Francesco Negro», mi segnalò Luca. «E no!»… lo rampognai. «Si dice Francesco di Colore. È bene abituarsi fin da ragazzini a non ghettizzare». I bambolini ridacchiarono, dando l’impressione di non aver colto l’importanza della questione. Ebbene, oggi mi sono ricreduto, perché sono venuto a sapere che Negro è ormai a tal punto di Colore in tutta la scuola che per il torneo di calcetto della nuova stagione gli hanno scritto quel più rispettoso cognome sulla casacca. Yes we can!