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Se in genere scrivo brani piuttosto brevi, oggi vi annoierò con un enchirìdio, un manualetto che medito da molto tempo, ma che trova in questi giorni precisa collocazione. Il tema è specifico, la trattazione tecnica e i tanti riferimenti molesteranno i non appassionati, ma credo meriti comunque un’occhiata perché il quadro del particolare è raffigurativo del generale. Scriviamo di pallone. Ed è la prima volta su queste pagine. Non ho trascurato l’argomento per snobismo, sia chiaro, ma proprio per ciò che vengo a dirvi. Nel calcio odierno si riscontra un’avvilente penuria di fuoriclasse. Di giocatori speciali. O anche solo di “individualità”. I pochi rimasti sono figli dell’epoca precedente o mezzi ritirati (Cristiano Ronaldo, Messi, Ibrahimović). La parola “campione” include anche valutazioni morali e caratteriali, quindi preferirei escluderla per non entrare in questioni arbitrarie, ma la sottolineatura non cambierebbe. Gli esempi che potrei portare a sostegno dell’enunciato sono talmente tanti da completare 10 album Panini, quindi mi muoverò svariando per il campo come Daniele Moretti, in un simulato flusso di coscienza, anche per non rendere troppo dottorale la stesura. Partirei dal caso italiano, quello che ci fa più male.

 

 

 

Quando mi apprestavo a superare con arroganza l’esame di maturità, in Italia per la maglia numero 10 si poteva scegliere fra Baggio, Del Piero, Zola, Mancini e il giovane Totti. Baggio, Del Piero, Zola, Mancini, Totti. Agli Europei del 2016, vent’anni dopo, il 10 della Nazionale è stato affidato al naturalizzato Thiago Motta. Che ai sopra citati potrebbe sì e no fare la lavatrice. Credo che questa sia la più feroce istantanea del precipizio in cui è caduto il nostro Movimento. Ma forse sarebbe bastato ricordare che nel 2006 eravamo campioni del mondo e oggi neppure qualificati. Interpreti che a cavallo fra gli anni 90 e gli anni 2000 venivano neppure considerati per le grandi squadre, oggi sarebbero venerati come divinità Maori, visti gli onnipresenti tatuaggi degli atleti. Giocatori che non videro mai la maglia azzurra, come Igor Protti, ora ne sarebbero bandiere. Quanto guadagnerebbe sotto questi chiari di luna Antonio Di Natale? Avrebbe trascorso tutta la carriera fra Empoli e Udinese? Vogliamo paragonare Di Natale al suo concittadino – stimato quasi unanimemente come il più forte giocatore italiano – Lorenzo Insigne? Vogliamo confrontare il multimilionario Pellé al cigno di Grosseto Marco Branca? Ciro Immobile a Benny Carbone? Il sopra citato Thiago Motta a Paolo Di Canio? O magari provare a parametrare Enrico Chiesa al figlio Federico? Eppure il padre giocò in Azzurro soltanto 17 partite. Ai tempi il Campionato italiano era il centro del mondo, e al modo c’era un elevatissimo numero di calciatori straordinari; in squadre di provincia come il Brescia transitavano Hagi, Pirlo, Baggio, Guardiola. La rosa del Parma di Tanzi – che sentiamo ancora così vicina poiché pagata un po’ con i nostri soldi – nel 1998 presentava Buffon, Thuram, Cannavaro, Sensini, Dino Baggio, Veron, Fuser, Stanic, Boghossian, Asprilla, Crespo, Balbo, Chiesa. Una formazione come questa rollerebbe la Juve campione d’Italia 2018 come un cannone. Ma proseguiamo con gli squilibri.

 

 

 

Paul Pogba, enfant du pays d’oggidì per la Francia, nel 2016 è stato pagato dal Manchester United 105 milioni di euro per riprenderlo dalla Juventus. La stessa Juve che esattamente vent’anni prima pagò Zinedine Zidane 7.5 miliardi di lire. Lo ricordo bene perché quando passò ai bianconeri dal Bordeaux avevo bigiato la scuola e leggevo la Gazzetta dello Sport (allora lo si faceva sfogliando grandi pagine di carta) in un bar di Fidenza, dove mi ero rifugiato per non essere intercettato dalla Stasi di famiglia. Se un 24enne Zidane giocasse oggi, quanto costerebbe? Un miliardo di euro? E Alvaro Recoba? Paulo Dybala è valutato 174milioni di euro. Centosettantaquattro milioni. E diciamocelo, pur memori dell’indolenza del Chino: Dybala è un Recoba scarso e metrosexual. Sì, perché allo scemare del livello ai suoi massimi livelli si sono contestualmente e beffardamente impennate le quotazioni, complici i nuovi ricchi arabi e cinesi scesi nel calcio e la crescita esponenziale degli sponsor e dei diritti televisivi. Per giocatori che un tempo avremmo ritenuto mediocri decollano cifre imbarazzanti. Il Manchester United ha pagato 33 milioni per Marouane Fellaini; Red Devils che ne incassarono 22 per Juan Sebastián Veron. La distanza calcistica fra Veron e Fellaini è a stessa che c’è – lo chiarisco per i non addetti ai lavori – fra Belén Rodriguez e Nilla Pizzi. L’argentino guadagnava al Manchester 5 milioni di euro a stagione. Pogba in sei anni ne guadagnerà 105. Esclusi sponsor e diritti di immagine. Restando ancora un attimo all’Old Trafford, invito gli appassionati a leggere le rose 2002/2004 dei Diavoli Rossi. Quel secondo Man Utd senza più David Beckham, ma con Cristiano Ronaldo, arrivò terzo in Premier. Terzo.

 

 

In Russia si stanno svolgendo i Mondiali, quindi riprendiamo le Nazionali. Abbiamo appena visto il tristo spettacolo offerto dalle “Grandi”: Argentina, Germania, Brasile, Francia. Poco meglio Spagna e Portogallo, ma più per l’imprevedibile svolgimento della sfida che per la qualità di calcio espressa. Torniamo allora con la memoria alle Grandi di un passato non così remoto: Brasile, Francia, Argentina, Italia, Olanda, Inghilterra, Paesi dell’Est… basta dare un occhio alle formazioni di allora per cogliere la misura della voragine. L’Olanda nel 1992 non vinceva gli Europei con Van Basten, Gullit, Rijkaard, Bergkamp, Witschge, Roy, i Koeman etc. La Francia è passata da Zidane, Henry, Pires, Djorkaeff, Anelka, Trezeguet, schifando Cantona e Ginola, al faro offensivo Griezmann. Il Portogallo non alzava alcun trofeo con Figo, Paulo Sousa, Rui Costa, Deco… e lo ha fatto agli ultimi Europei con Joao Mario, che sembra il fratello sfortunato di Clarence Seedorf. Il Brasile di Corea e Giappone – forse la Nazionale più forte di sempre – giocava bonito con Roberto Carlos, Cafu, Gilberto Silva, Juninho, Ronaldinho, Rivaldo, Denilson, Kaka e il Fenomeno Luís Nazário de Lima, Ronaldo. Giovanni Silva de Oliveira – che ritengo il più sontuoso talento inespresso della storia del calcio – viveva ai margini della Seleção. Marcio Amoroso e Giovane Élber anche. Ora Neymar – pur senza dubbio molto dotato, il più dotato fra gli under 30 – è percepito come un mezzo Messia, benché in quella spedizione sarebbe stato convocato come pop-icon per le fan asiatiche. L’Inghilterra poco tempo fa intonava God Save the Queen con Rio Ferdinand, Ashley Cole, Terry, Gerrard, Scholes, Hargreaves, Beckham, Lampard, Joe Cole, Owen… mentre in quella che ho visto in amichevole contro l’Italia Vinnie Jones potrebbe fare il trequartista. Ma torniamo alla stretta attualità con il match Croazia-Nigeria di pochi giorni fa. Nei Mondiali del 1998 la Croazia schierava, fra gli altri, Tudor, Simic, Jarni, Stanic, Prosinečki, Boban, Bokšić, Vlaovic, Suker; la Nigeria rispondeva con Babayaro, West, Oliseh, Amokachi, Finidi George, Ikpeba, Jay Jay Okocha. Nel giugno 2018 si fanno tutti le pippe per il pur abile Luka Modrić e non mi sorprenderei se questa Croazia arrivasse in finale (specie se dovesse impiegare Marko Pjaca). Okocha, dal canto suo, potrebbe scendere in campo adesso con le ciabatte della Puma ai piedi e due ananas in testa per portare comunque tutti a scuola. L’unica Nazionale che fa chiara eccezione al collasso generalizzato è il Belgio, dove c’è tanto talento diffuso, benché sarebbe vano cercare la classe di un Vincenzo Scifo, visto il genere calcistico un po’ hipster oriented della compagine. A parte i noti Hazard e Mertens, segnalo il maestoso Leander Dendoncker, capace di aperture da 50 metri con entrambi i piedi, e Adnan Januzaj, che porta in giro il sinistro un po’ alla Savićević. Entrambi giovanissimi, saranno utili negli anni a venire. Fra i possibili protagonisti della altre squadre, mi piace come gioca il crucco del Paris Saint-Germain Julian Draxler e riconosco i virtuosismi di Kylian Mbappé.

 

 

Veniamo allora alle cause di questo degrado. Benché via sia un parte di casualità – perché il genio è ciclico e può ammassarsi inopinatamente in alcune generazioni e poi svanire per un po’ o magari non ripresentarsi più nelle concentrazioni cromosomiche di un Maradona – le scienze applicate ci danno indizi significativi segnalandoci che negli ultimi dieci anni si è alzato il “pace”, ovvero il ritmo partita. Ogni giocatore macina più metri, tocca più volte il pallone durante un match e ha meno tempo per giocarlo prima che arrivi un oppositore, anche per il contemporaneo “sviluppo” tattico che ha portato a squadre sempre più corte e accorte. Questo determina più errori in fase di possesso, più ribaltamenti di fronte, meno virtuosismi creativi e soprattutto ha mutato il codice genetico richiesto. Se ieri un centrocampista poteva alzare la testa e inventare, oggi può solo “rimbalzare” con il massimo possibile dell’energia cinetica verso lo spazio. Quindi essere elastici, magari fatti di gomma, è decisivo. E il sublime “fantasista” un po’ impettito alla Andy Möller, alla Riquelme, alla Zorro Boban, per non dire alla Asanović… si è estinto. Se osservate, c’è un livellamento impressionate nello specimen degli atleti. I giocatori chiamati a portare palla sono sempre più simili fra loro: bassi di baricentro, rapidissimi palla al piede, abili nell’uno contro uno, con una frequenza di passo allucinante – quasi tarantolati – tosti e “gommosi” appunto, con un fondo eccezionale, capaci di sprint ripetuti a tutto motore e non particolarmente ispirati in fase di rifinitura. Come potrebbe in questo solco nascere e fiorire un Paul Gascoigne? Se Messi ne era l’inedito presagio – anche se la prima volta che notai il “cambio di passo” in fieri che si stava verificando nel calcio fu con Martin Petrov ai tempi del Wolfsburg  – Isco e Douglas Costa ne sono la massima espressione “standardizzata”. Andate a vedere come giocava quel geniaccio di Iván de la Peña, ma anche il più dinamico Deco e come gioca Isco: sembrano due discipline diverse giocate sullo stesso campo e con lo stesso attrezzo. Eppure si è creato un apparente paradosso. Le necessità imposte dal ritmo forsennato hanno forgiato e preordinato giocatori poi incapaci di “riprogrammarsi” in situazioni statiche. Infatti la domanda che sorge spontanea a chi volesse raffinare l’osservazione risulta la seguente: se è il ritmo che obbliga a giocate più rapide e quindi necessariamente meno precise o creative, per quale ragione quando la palla è ferma la qualità non torna a brillare? Dove si celano i calciatori piazzati di qualche tempo fa? Vedete dei Ronald Koeman? Dei Beckham? Dei Pernambucano? Dei Pirlo? Totti? Zola? Del Piero? Mihajlović? Tsiartas? Veron? Deco? Nakamura? Roberto Carlos? Tutti eccezionali specialisti, eppure tutti diversi fra loro. Oggi ci sono? No. Arriviamo così al punto.

 

 

 

 

A mio giudizio il calcio di oggi è un’effigie in movimento della società. Nella contemporaneità la palla è la comunicazione. Sono le relazioni. E’ il rapporto con il reale. La palla gira sempre più veloce perché la digitalizzazione del mondo lo permette e lo rende necessario. Siamo chiamati ad avere riflessi istantanei, a controbattere, a partecipare, senza più sapere esattamente che cosa vorremmo dire. Non abbiamo più il tempo per pensarci e anche quando finalmente ci sarebbe, non siamo più abituati a far congetture. Trovo sempre inaudito contemplare il cassiere del bar vicino a casa che anche quando sono l’unico in fila “performa” le sue funzioni sbrigativamente, meccanicamente, senza essere più in grado di rallentare, valutare, conversare. Tutti si muovono in superficie, a pelo dell’erba, sveltissimi, riproducendo l’esistente, roboticamente, e nessuno ha più la capacità di alzare la testa. La ferocia livellatrice del mezzo istantaneo sta annullando ogni variazione, ogni segno di individualità. Quindi nessuno sa più immaginare alcunché di alternativo al flusso amministrato e neppure interpretare eventuali cambi di scenario. In conclusione, una società che macina informazioni e scambi con un ritmo terrificante e senza idee ha prodotto uno sport ricco di efficientissimi robottini e povero di fuoriclasse. Nel calcio le individualità sono sempre più rare perché nella società più individualistica di ogni epoca… l’individuo sta morendo.

 

 

 

 

 

P.s. In calce uno scorcio filmato che è l’immagine plastica di tutto ciò che intendevo suggerire:

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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