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«Caro Di Maio, non abbiamo paura: continueremo a raccontare la verità». Questo il titolo del poderoso editoriale firmato Mario Calabresi. La cui parafrasi è: «Detestato Di Maio, ci stiamo cacando in braca: continueremo a taroccare la verità». La letterina di richiamo del direttore di Repubblica al leader dei 5Stelle metterebbe tenerezza, non facesse ribrezzo. Il dettato è infallibilmente pedestre, la cifra stilistica malconcia, e quanto ai contenuti vale ciò che già avevamo segnalato in passato: un genuino compendio della depravazione intellettuale e morale dei galoppini di un regime boccheggiante, chiamati con una pernacchia a fottere l’opinione pubblica e oggi furenti, frustrati all’idea di non poterla più penetrare neppure servendosi della pompetta; crucciati innanzi alla constatazione di essere diventati impotenti.

 

 

 

 

La primitiva impalcatura dell’argomentare si basa su un trito trucco da cialtroni: calunniare come oscurantista chi si ribella all’oscurantismo della stampa garzona. E lo fa ancora e ancora e ancora alla stessa maniera: si maschera un interesse volgarmente opportunistico da nobile slancio democratico, rivendicando il pluralismo dell’informazione, la libertà di stampa. Ovvero si difende la libertà di usare la stampa a fini politici, contro il pluralismo. Per rendere potabile il veleno si accusa preventivamente la controparte di tutte le proprie alterazioni. Sapendo di essere agitatori di una campagna contro il governo, e contro i 5Stelle in particolare, che sta diventando ogni giorno più ossessiva e più aggressiva, si puntano le corna sulla controparte, accusandola di aggredire la stampa; sapendo di essere dispotici, si urla al fascismo; riconoscendosi avidi e meschini, si biasima la spilorceria d’animo; consci di essere scadenti, si taccia di semplificazione, di incompetenza; sapendosi falsi e conformisti, si annuncia di voler smontare falsità e luoghi comuni; sapendosi piromani della malafede che tutto prova a incenerire, si punta il dito sulle fiammate altrui.

 

 

«Vogliono mandarci fuori strada, lo dicono e ripetono ogni volta che ne hanno occasione, in pubblico e in privato. Con una costanza e una rabbia che non ha precedenti»; «Siamo preoccupati per noi e per il Paese, per lo scadimento del dibattito che avvelena l’opinione pubblica»; «Per il potente che vuole liberarsi dalle critiche e vorrebbe solo giornali servizievoli che battono le mani sotto il balcone, quale migliore occasione che infilarsi in questo passaggio storico per aumentare le difficoltà?»; «il Movimento 5 Stelle non digerisce, non sopporta che la voce più ascoltata e diffusa della rete sia dalla prima pagina critica con loro. Siamo “pericolosi” proprio perchè Repubblica è leader in quello che considerano il loro territorio, la loro prateria»; «Chi disturba e insiste nel fare domande, nel mettere in evidenza contraddizioni, nello svelare errori e furbizie, deve essere messo fuori gioco. In fretta. Con qualunque mezzo». In queste poche righe c’è il male. Ancora. Ma non il genio diabolico di un oscuro e ragnato manipolatore, piuttosto la manifesta e dozzinale falsificazione del reale al servizio del padrone, incapace di vedere oltre le proprie corna. Il male nella sua banalità, il male cieco. Ignaro che la sua coda mefistofelicamente suina abbia bucato il camice da ministrante catto-progressista e sia visibile a chiunque butti l’occhio. O ancora il titolo che leggerete domani in edicola: «La manovra non piace a nessuno». Così è il giornalismo di Repubblica: indefinito. I rappresentati che hanno delegato ai propri rappresentanti le scelte politiche ed economiche in una democrazia rappresentativa e che stanno sopra il 60% dei consensi in tempo reale… sono nessuno. Provvidenzialmente, la doppia negazione rende giustizia: loro sono qualcuno; Repubblica è niente. Ogni frase «che continua a raccontare la verità» vergata “a occhi chiusi” da Calabresi porta l’impronta della mano, priva di pollice opponibile, che la verità ha da sempre goffamente cercato di rovesciare.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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