All’uscita dell’ultimo decreto, ero già rimasta indietro con le circolari delle varie scuole: non avevo ancora capito chi-doveva-rientrare-quando. Cioè, era chiaro a tutti che il 7 gennaio scattava il rientro in classe.  Che detto così, è a prova di imbecille. Ma la cosa non era poi così semplice.  La programmazione era questa: una, intesa come figlia o scuola, avrebbe dovuto iniziare il 7 gennaio alle 8  in presenza, poi l’8 gennaio alle 9 ma da casa e l’11 gennaio alle 10 di nuovo a scuola. Ho dovuto ripetere e scrivere e sottolineare la parola gennaio perché altrimenti mi si incrociavano gli occhi e anche i mesi con le ore…

L’altro, inteso come figlio o come liceo, iniziava il 7 gennaio alle 10 ma da casa, poi l’8 alle 10 ancora da casa e l’11 alle 10 ma questa volta a scuola. E non vado avanti.  Una programmazione di 3 giorni mi pareva più che sufficiente: primo perché in 3 giorni, ormai lo abbiamo sperimentato più volte, può cambiare tutto ma proprio tutto che il tutti a scuola diventa tutti a casa, anche se mai viceversa.  E più banalmente perché a più di 3 giorni non riuscivo a stare dietro.

Il dubbio

Così, quando l’altra mattina ci siamo risvegliati col nuovo decreto che rimandava il sudoku all’11 gennaio, devo dire che ho tirato un egoistico sospiro di sollievo. L’ho fatto di nascosto e soprattutto senza farmi smascherare dai genitori delle chat diventate (peraltro giustamente) incandescenti.

Subito dopo, il dubbio. Forse non ho capito bene o mi sono persa qualcosa di davvero fondamentale perché il 7 gennaio è un giovedì, poi l’8 è venerdì, sabato e domenica dovevano stare comunque a casa  e l’11 gennaio è lì, dietro l’angolo. In questi 3 giorni cosa può esserci di così salvifico o ancor più drammatico da essere costretti a prendere una decisione di quelle da decreto in mezzo alla notte? Il dubbio è rimasto. Per una manciata di altre ore. L’11 gennaio in Lombardia è diventato il 25 gennaio e via slittando.

Nel frattempo, disastro. Hanno cominciato ad arrivare altre circolari delle scuole. Quindi: una ha riprogrammato il 7 e l’8 con la didattica a distanza con un orario (8-16) che stroncherebbe anche il principe dei secchioni e, d’altro canto, anche il più illuminato dei prof , l’11 gennaio invece inizia alle 10 ma, confesso, non ho voluto guardare a che ora finisce. L’altra scuola…  vabbé vabbé clic ho chiuso. La leggerò poi… Per fortuna i miei figli non contano su di me per arrivare in tempo a lezione che sia a casa o a scuola. «Organizzazione» è la nuova materia che andrebbe valutata quest’anno dai professori.

Orari

Perché poi tutto questo gran parlare di scuola a ben guardare si riduce a poca cosa: quando rientrare e ovviamente come farlo. Ma tutto lì. Per chi suona la campanella è il grande tema del dibattito. E per giunta solo quella di entrata. Sull’uscita va tutto bene o tutto chi se ne importa.

Che importa finire alle 15 o alle 16 pur di mantenere fede alle 200 implacabili ore di didattica della scuola italiana? Che importa se eventualmente da gialli o bianchi o grigi ci sarebbe anche una lezione di canto, di scacchi, di calcio o giardinaggio o di che diamine vi pare o solo di tempo vuoto per prendere un caffé con un amico giusto per ricordarsi che l’adolescenza parla parecchie lingue?

Che importa se finire alle 16 per qualcuno significa arrivare a casa alle 19 che poi ci sono i compiti da fare e scusate ma quando li faccio? Che importa se c’è una maturità, un’altra volta proprio lì, dietro l’angolo ma mentre Francia e Gran Bretagna già hanno deciso di annullare tutto, in Italia toc toc qualcuno dica qualcosa per favore e smettiamo di giocare al comanda color?

Non potendo sciare per ora slittiamo. «Ma perché non programmano una cosa un po’ più a lunga scadenza così da poterci regolare una volta per tutte?» mi ha chiesto mia figlia l’altra mattina davanti al caffé. Mi sono aggrappata alle funi di Conte per una rocambolesca risposta: «Bisogna vedere l’andamento del virus… ma passiamo a un’altra domanda…»

Protesta

L’ulteriore slittamento si è portato dietro due conseguenze: una chat di genitori si è improvvisamente ammutolita. Non ci sono più parole. Solo una pandemia poteva riuscire a zittire la chat di mamme.

L’altra invece invece al risveglio aveva già una cosa come 150 messaggi. Impossibile stare dietro alle circolari, figuriamoci ai messaggi delle chat.

Di fatto bisogna riconoscere che i vari decreti in una cosa riescono benissimo: con tutti quei colori che spaziano dal rosso che tende all’arancione al giallo rinforzato, con la prospettiva di un bianco che sfuma sul grigio (già comunque onnipresente), hanno eliminato  i chiaroscuri della vita. Cioè, c’è chi la pensa bianco e chi la pensa nero, tanto per restare in tema di colori. Intendendo per «bianco» tutti quelli che a-scuola-sempre-costi-quel-costi e col «nero» tutti quelli che a-scuola-aspettiamo-ancora-troppo-pericoloso. Un esercizio che nel nostro paese riesce benissimo. C’è un momento, un preciso momento in cui le idee si trasformano in ideologie. Cubiche. Tagliate con l’accetta che smussa angolature, nodi, sottili venature. Così, limate e all’improvviso lineari senza ombre (di dubbio) diventano facili, facilissime da maneggiare, incasellare, accatastare, assimilare.

Quindi due schieramenti. Due petizioni,  due diverse raccolte di migliaia di firme. Due barricate fatte di genitori, insegnanti, e ragazzi. Ragazzi non bambini perché loro a scuola ci vanno e per fortuna. Sempre  loro, quegli adolescenti di cui molto si è detto, molto si è scritto ma dei quali poco o nulla si è fatto.

Universitari

Per non parlare degli universitari. Ma esistono? verrebbe da chiedersi. Per fortuna qualche giorno fa ci ha rassicurato Claudio Cerasa che in un bell’articolo del Foglio (Scommesse sul futuro e boom di iscrizioni. L’università dà super lezioni alla politica)   indaga tra i numeri e fotografa un’università che registra addirittura un incremento delle immatricolazioni. Si iscrivono dunque esistono. E pure più di prima. Come vivono? Suvvia, non è che possiamo pensare anche a questi grandiglioni di 20 anni che possono benissimo esibirsi davanti alla telecamere del computer su esami che determinano il loro futuro professionale (e anche il nostro, direi, visto che saremo nelle loro mani…) Ma chi se ne frega se le università sono chiuse pure quelle da quasi un anno e si sa già che resteranno chiuse fino alla fine dell’anno. Nessuno ne parla. Ma questo significa, tanto per fare un esempio pratico, che un ragazzo  immatricolato lo scorso anno, ha mosso i primi passi all’università per un paio di mesi. Poi, tutti a casa. Niente incontri con i docenti, niente scambi con i futuri colleghi, niente approfondimenti, niente di niente. Il secondo anno è iniziato tale e quale… Bisogna ricordare che l’università viaggia ormai sul 3+2. Significa che il prossimo anno avremo dei laureati che potrebbero aver frequentato l’università senza mai aver messo piede in un ateneo. Virtuali, telematiche. Universi in una stanza. Con quali conseguenze, lo scopriremo.

Il libro

Miguel Benasayag e Gerard Schmit, psicanalisti, in epoca non sospetta  (era il 2003)  hanno pubblicato un libro dal meraviglioso titolo L’epoca della passioni tristi, espressioni ripresa dal filosofo Spinoza che pare adattarsi perfettamente alla realtà di oggi.  Quando smetteremo di interrogarci sulla campanella di cui sopra, potrebbe essere utile per sapere come affrontare e gestire quel mondo svuotato o cresciuto dentro ai nostri ragazzi, i primi (e speriamo gli ultimi), ad avere sperimentato la definitiva frattura tra quello che i due studiosi chiamano il «futuro-promessa» e il «futuro-minaccia».

L’ultima trasgressione

Ecco perché per la prima volta nella storia, per quei ragazzi ai quali è stato tolto tutto, l’ultima trasgressione che resta è piazzare il computer davanti a scuola. Il paradosso. Da che mondo è mondo sulle porte delle scuola c’erano i picchetti per fare restare gli studenti fuori. Ora ci sono picchetti per entrare a fare lezione. L’ultima trasgressione è un banco. Un libro. Un prof. L’ultima trasgressione è sfidare il freddo e i dpcm, per caricarsi il computer in spalla e okkupare  mascherati e igienizzati fino all’ultimo lembo di pelle, distanziati e contenti, pronti almeno a «scambiarsi uno sguardo di pace» come si dice ora in chiesa.

E dunque: poveri ragazzi sì, perché sono mesi con la vita in pausa, perché la scuola non è solo apprendimento, perché gli amici… perché i baci, perché il cazzeggio, perché a 18 anni il tempo corre a velocità che noi adulti non ci ricordiamo neanche se ci sforziamo e potrei andare avanti per righe e righe…

Ma poveri ragazzi anche no perché non si può a 18 anni accomodarci nel comodo lamento, perché bisogna combattere l’idea che il presente è compromesso, nel senso di rovinato, pregiudicato, invalidato  perché come ha scritto recentemente Recalcati nel suo magistrale articolo  No alla generazione Covid «se i nostri ragazzi non hanno potuto beneficiare di una didattica in presenza nel corso di quest’anno, se hanno perduto una quantità di ore e di nozioni significative e di possibilità di relazioni questo non significa affatto che siamo di fronte all’irreparabile».

Insomma, a gridare al trauma si rischia di vittimizzare non solo i nostri figli (dice sempre Recalcati) ma un’intera generazione. La generazione Covid appunto, che lui esorta così: «Coraggio ragazzi siete sempre in tempo anche se siete in ritardo. Perché in fondo nella vita è sempre così per tutti». Anche di quelli che con il covid non avevano niente a che spartire: «siamo sempre in tempo anche si siamo sempre in ritardo».

Spunti e appunti

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