Quando li trovo piegati sul cellulare, come Schroeder sul pianoforte (che comunque non è il telefono e quindi è tutta un’altra cosa…), è più forte di me: m’inalbero, per dirla bene.

Adesso più di prima, perché adesso li vedo più di prima, e riusciamo incredibilmente ad attraversare  in un nanosecondo tutti gli stati d’animo dell’essere umano, confermando l’intero elenco di sfumature emozionali ritracciate dal team dell’University of California-Berkeley che ne ha classificate ben 27. Ammirazione, disgusto, noia, imbarazzo, orrore, paura, tristezza, simpatia, dolore empatico e via elencando,  fino alla 27esima: rabbia. E aggiungerei anche esplosiva difronte a Schroeder sul cellulare.

D’altronde, io in smart warking, loro in dad che sia intera o a singhiozzo, è tutto un frequentarsi, un esserci sempre e tanto e da tanto tempo come non era mai successo in nessun altro periodo della nostra vita di madri/padri e figli. Troppo, sicuramente per loro, i ragazzi, sempre meno ragazzi in questa pandemia che li fatti essere  quasi esclusivamente solo «figli» e «studenti» dal risveglio alla buonanotte.

Così ora più di prima (e anche comprensibilmente) si defilano appena possibile. Ognuno nel proprio guscio che sia un’altra stanza oppure anche nella stessa, ma in un luogo, un posto, all’interno di loro stessi totalmente inaccessibile. A me ovviamente. Fuggono, come possono e dove possono anche restando in casa.  Lo fanno anche così, chini, attorcigliati, concavi e ripiegati sul cellulare come se lì dentro ci fosse chissà che cosa… il problema non è solo in quello stare ma anche in quel chissà che cosa. Perché se quell’identico stare non fosse sul telefono ma su un libro, sul pianoforte di Schroeder appunto o di chiunque altro, un disegno, persino una ricetta di cucina o un gioco di società già scatenerebbe un’emozione diversa tra le 27 selezionate dai ricercatori dell’università americana e sarebbe più vicina a quelle positive che in fondo alla lista delle negative.

Chissà che cosa penso e ripenso a voce alta. Quindi torniamo al punto di partenza: mi inalbero appunto. E dico tutte quelle cose che dicono tutti i genitori noiosi come me e che pretendono di avere un minimo di controllo su tutto o quanto meno su quell’arnese che domina la vita dei nostri figli. Però poi un po’ anche la nostra, o perlomeno la mia, insegnando spesso anche se non volentieri quello che non vorremmo mai vedere. Cioè un adolescente che sembra Schroeder sul piano che invece è un telefono.

Quando m’inalbero, poi , dico delle cose che fanno orrore anche a me mentre le dico. Tipo che ci sarà mai dentro quel telefono… giochi, video che diamine ci stai a fare sopra, dentro a quello schermo? Il sottinteso non è poi neanche tanto nascosto perché presuppone tutta roba negativa, brutta, non educativa sicuramente e inutile per crescere bene come intendo io.

Così a volte penso di avere perso l’ennesima occasione per stare zitta quando mi fanno vedere cosa ci stavano a fare su/dentro  quel telefono perché qualche volta – raramente – capita che me lo facciano anche vedere. E capita che sono cose tutt’altro che stupide o inutili o dannose. Come succede anche a me  per l’appunto che dentro quel telefono ci leggo tutti i giornali per esempio che poi anche questo a volte è dannoso soprattutto per il fegato ma vabbé…

Ma in questo periodo ho capito una cosa che non succedeva prima. E per «prima» intendo sempre l’era a.C, ante Covid.

Ho capito che dentro quel telefono loro ci vedono il futuro. Che è travestito da passato. Sta lì, nella galleria, nascosto dentro quel simbolino tutto colorato, nelle fotografie. Nelle immagini dei giorni senza Covid. Gli scatti senza mascherine, i sorrisi, le feste, i bar strapieni e le discoteche e le scemate e i tacchi  e la birra. E le linguacce (ma quante linguacce si fanno?)

Clic. Clic. Clic. Dentro il telefono ci sono le foto che non sono solo immagini di come erano “prima”. Ci sono proprio loro di prima. Loro senza pandemia. Ci sono gli scatti sulla vita che vorrebbero fare e sono costretti a vietarsela. C’è il mondo dove stavano bene o meno bene ma dove almeno erano liberi di stare. Ci sono gli abbracci stretti stretti con l’amica, quella vera o anche quella un po’ meno vera ma chissenefrega. Un bacio rubato, strappato, voluto, regalato e le risate belle grasse, vere, leggere.

Eppoi le partite di calcio, di pallavolo, di basket, spintoni, fallo, ehi questo è fallo arbitro, ma perché non fischi. Niente fischi. Non ci si può toccare adesso. Guardare appena e allora… e allora ti dicono anche meglio niente. Meglio stare a casa, perché insieme con il gruppo non puoi stare da nessuna parte.

Li trovi così a scivolare dentro quel mondo di foto che resta un’ancora per ritrovarsi e non perdersi. Un frammento di se stessi in quei pochi anni che separano l’infanzia dalla pandemia. Dall’essere nulla – perchè per un adolescente il bambino-che-era è troppo vicino per essere preso in considerazione – a essere nulla di adesso.

Le foto dentro il telefono sono il ponte invisibile tra ieri e domani, quel tempo fermato che non  avremmo mai sospettato che ci sarebbe tornato cosi utile adesso. Per questo sui social  sempre più spesso rispuntano i ricordi suggeriti da questo a dall’altro algoritmo. E clic, ripubblicati anche da chi non fa più parte da un pezzo della generazione zeta o y o vattelapesca. Ributtati nella rete per dirsi ecco cosa facevo. Ecco come ero. Ecco.

Ecco, cioè  quello che hanno sempre fatto gli anziani,  la maggior parte della vita alle spalle invece che davanti, felici di sfogliare foto per ritrovare il senso del presente quando non c’è la prospettiva futura. Ecco cosa fanno oggi  i nostri adolescenti precocemente invecchiati, aggrappati al passato in una foto dentro il telefono per poter immaginare il domani.

 

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