Giovani ribelli? Magari!
C’era una volta l’adolescente. Che oggi non c’è più. Cioè «adolescens» ancora, «nutrendo» (dal latino) la propria personalità per diventare «adulto» cioè «nutrito» e quindi cresciuto. Ma non più allo stesso modo. I ragazzi di oggi possono assomigliare a quelli di ieri per le cose che fanno, quelle che non fanno, o non vogliono fare. Ma dietro c’è tutta un’altra storia. A raccontarcela Matteo Lancini, psicologo, presidente della Fondazione Minotauro a Milano, osservatorio privilegiato del disagio giovanile e anche docente all’Università Bicocca (Psicologia) e Cattolica (Scienza della Formazione) di Milano. Ha scritto un libro, «L’età tradita» (Raffaello Cortina editore). Sottotitolo «Oltre i luoghi comuni». Quali? Quelli di cui saremmo infarciti noi adulti. Genitori. Insegnanti. Tutte quelle figure che pensano di educare (bene) a suon di 3 in pagella o di sequestri di cellulare, convinti così di renderli più forti, sicuri, capaci di affrontare le delusioni. E invece, lui sostiene, il risultato è esattamente opposto. Perché davanti ci sono altri ragazzi, che facciamo finta di non vedere. In sintesi estrema: ragazzi incapaci di sopportare il fallimento rispetto alle (troppo alte) aspettative interiorizzate fin da bambini, usano il loro corpo come megafono di un dolore inespresso perché hanno davanti una fragilità adulta senza precedenti che non lo sa ascoltare.
Da adolescente edipico e adolescente narcisista
Come e perché sono cambiati? E cosa possiamo fare per aiutarci, per aiutare una generazione che oggi grida aiuto con attacchi di panico, anoressia, ritiro scolastico (in drammatico aumento) e sociale, gesti autolesivi fino ad arrivare al suicidio, come ci raccontano le cronache recenti. Peraltro, più frequente di quello che si legge. «Sono la seconda causa di morte tra i giovani – racconta Lancini – e la prima sono gli incidenti stradali, talvolta mascherati da suicidi». L’attacco oggi è su se stessi. Perché?
«Fino a una quindicina di anni fa si cresceva affrontando problematiche che noi definivamo “edipiche”. I ragazzi erano immersi in una società sessuofobica dove i dettami erano “devi obbedire”. “Prima il dovere, poi il piacere”». Il loro crescere passava dalla trasgressione, «il loro problema era non aver potuto esprimere se stessi. E l’adulto era visto come un soggetto a cui opporsi colpevole di averli schiacciati, pressati all’insegna del fatto di sapere cosa era meglio per loro». Ora il giovane edipico si è trasformato nel «narcisista». Non da solo.
Pompato, iperstimolato, iperidealizzato fin dalla culla, si affaccia alla seconda nascita «bisognoso del successo sociale» altrimenti si sente (…) «sfigato», autonomo a tal punto che è «poco propenso a sottomettersi alle norme adulte se non sostenute da argomentazioni per lui ragionevoli e in alcuni casi fin troppo spregiudicato e sregolato». Se prende 4 non lo dice a mamma e papà non perché tema la reazione, ma perché ha paura di deluderli. Come dire loro di non farcela, quando hanno fatto così tanto per lui? L’adulto storce il naso, come è possibile? Perché siete così fragili? Eppure.
L’adolescente di oggi «è il risultato di quel bambino che abbiamo cresciuto». Ma che ora, proprio quando «richiederebbe sostegno nella realizzazione di sé da parte di adulti autorevoli prevalgono atteggiamenti educativi infantilizzanti».
Bambini adultizzati e adolescenti infantilizzati
«Da diversi anni sostengo che la più importante emergenza formativa dipenda dal processo di adultizzazione del bambino a cui fa seguito un’infantilizzazione dell’adolescente». Ai bambini si chiede di crescere «secondo dettami adulti che favoriscono l’autonomia, la socializzazione, l’espressione di sé e delle proprie inclinazioni per poi guardare con sospetto agli adolescenti che hanno puntualmente aderito alle richieste». Alimentati da ideali molto elevati, in una società individualista e competitiva con una forte anticipazione delle esperienze, «con la mamma che ti sprona a fare tante cose, ti dice che sei bravo, mai la solitudine, mai la noia bandita dal processo di crescita, i genitori spingono a una sorta di crescita che una collega ha racchiuso in un’espressione: “sii te stesso a modo mio”». Si è costruita quella che lui definisce una società dell’iper-investimento sul bambino, «piccolo cucciolo d’oro che se si arrampica due volte sul divano la mamma corre a iscriverlo al corso di arrampicata». Si parla molto, si pensa di ascoltare parecchio ma «non si guarda davvero». Anzi. Si chiede al figlio di far sentire alla mamma (e alla società) che è se stesso ma al modo che vogliono i genitori. Così crescono bravi e convinti di aver corrisposto esattamente all’ideale dei genitori. Salvo poi scoprire di non essere aderenti a quei modelli, e forse non lo saranno mai.
Società dissociata
«Oggi in una squadra di calcio anche dell’oratorio si trova la squadra A, B e C. Eppure se il bambino della squadra A non vuole passare la palla a nessuno, non gli viene detto “bravo” premiando la competitività che hanno contributo a far crescere, ma “sbagli, non sei solidale”. Oppure, la scuola dice di contrastare la competizione ma dal primo giorno distribuisce bollini, rossi o blu e smile con le faccine allegre o tristi. A parole dicono che non devono essere competitivi ma alimentano la competizione ogni giorno. Internet «è la monumentalizzazione di questo concetto». Ci crescono dentro ma, dopo, diventa «il» male. «Gli è stato chiesto di vivere sempre connessi, in una relazione profonda con la madre anche a distanza». Dove sei, rispondi, guarda che ti chiamo. Poi però quando mettono fuori la testa dal nido viene misurata la loro dipendenza. «Da piccoli non hanno più spazi di gioco e socializzazione quindi le nuove generazioni si sono chiuse in internet. Giocano sul video e socializzano sui social per sperimentare la loro identità nascente. «Le mamme, in nome di una società pericolosa, e papà sempre più ansiosi hanno messo sotto sequestro il corpo dei figli e loro hanno virtualizzato l’esperienza. Peccato che poi invece di dire loro grazie, cosi non sono angosciato che sparisci, che esci e speriamo che tu torni, li accusano di essere dipendenti da internet, che i social fanno male, e i videogiochi li rendono violenti». Internet era il male assoluto. Durante la pandemia è diventato necessario, con la dad. Finita l’emergenza, clic. La dissociazione adulta accende e spegne bisogni come se i ragazzi fossero interruttori.
La fragilità adulta
La famiglia certamente ascolta, più di ieri, «ma i figli vedono uno sguardo in cui non possono esprimere chi sono davvero, i dolori, gli inciampi, i fallimenti perché il genitore non lo sopporta o banalizza o dice che non è vero». Manca l’ascolto delle ragioni profonde. La pandemia ha aumentato i disagi? Per Lancini al contrario ha consentito ad alcuni ragazzi di esprimere i disagi che già c’erano prima ma non osavano confessare nel timore di banalizzazioni o sguardi delusi, o angosciati. Non trovando un adulto di cui hanno bisogno, si crea una sorta di ribaltamento dei ruoli: «i ragazzi si adattano alle esigenze degli adulti pur di farli sentire adulti». Viceversa, l’adulto proietta sull’adolescente le sue fragilità, «come se si fossero invece costituite nella loro mente e in base a che cosa? Ovviamente internet e la pandemia. I due schermi su cui viene proiettato tutto».
Chi sono i nuovi adolescenti
Più fragili? Senz’altro. Ma anche più esperti di relazioni, non crescono più per conflitto, trasgressione e opposizione, ma per delusione rispetto a modelli interiorizzati fin da bambini, «dovendo fare i conti con una voce terribile che ti dice che se non sei popolare, non hai valore, se non hai successo sei un fallito. E, grazie alle angosce adulte, con pochissima capacità di tollerare il fallimento o semplicemente l’errore, su cui peraltro bisognerebbe invece costruire la scuola». L’errore è un dramma per un genitore, il brutto voto è il fallimento. Il soggetto narcisista se prende 4 si mortifica e abbandona la scuola. O peggio. «I 2 ai miei tempi erano diversi, ma erano tempi in cui destra e sinistra si combattevano, in cui il conflitto assumeva altri aspetti. Non succedeva che il 2 ti faceva buttare dal liceo classico perché meglio morto che uscire da sconfitto da quel tale liceo superblasonato». Ma l’interlocutore ora è dentro di sé, con il senso di fallimento e la percezione di non farcela in una società dove non vedi futuro «e adulti che invece di aiutarti a pensarlo e a costruirlo, ti mortificano dicendo che ti farà bene, che lo fanno per te».
Così si anestetizzano, con gli shottini e le canne che hanno perso qualsiasi valenza trasgressiva o disinibitoria: «servono a lenire uno stato mentale di sofferenza». Persino il sesso ha perso rilevanza. «Prima una società sessuofobica portava ad avere nel sesso il motore dell’adolescenza, il corpo erotico, il desiderio, la nudità, tutto quello su cui è nata la psicanalisi, il modello pulsionale, Freud». Negli ultimi anni il sesso interessa meno. «C’è chi dà la colpa a internet e alla pornografia, secondo me c’è anche la questione della procreazione assistita e del fatto che il sesso non è più funzionale alla sopravvivenza della specie. Le nuove generazioni crescono con l’idea che si possa avere un figlio senza l’atto sessuale».
Quindi «interessa molto più compenetrare la mente che il corpo dell’altro. Conta sentirsi sempre o guardati o pensati. Ecco perché ha più successo il selfie o il sexting». Non se la prendono con padri, madri, (quasi) mai con gli insegnanti. Per Lancini a fronte di qualche gesto aggressivo nei confronti dei professori, esiste una marea di ragazzi che a scuola non vuole più andare, che ha disturbi alimentari, che si taglia. «Il corpo è il megafono di un dolore che non trova espressione». Il self cutting, il disturbo alimentare dove il corpo non va mai bene e lo devi manipolare, i tentativi di suicidio, il ritiro sociale sono sistemi «di lenire un dolore mentale che non trova altra espressione. Come un disperato tentativo di non diventare matti».
I genitori cosa possono fare?
L’unica risposta che Lancini può dare è quella che (non) dà. E cioè che non ci sono ricette. Però qualche punto fermo sì. Ed è in controtendenza rispetto all’opinione comune. «Intanto smetterla di combattere battaglie contro internet ma annetterlo nel processo di crescita sia in famiglia che a scuola. Quindi non chiedere ai figli come va a scuola ma come va in internet, se sta pensando di suicidarsi. E non sono battute».
Includere internet
Pare una provocazione, ma non lo è. «Mi dicono, non puoi dare consigli meno forti? E io dico no. Perché gli adolescenti oggi non parlano proprio per questo, gli adulti hanno paura e rimuovono questi temi. La storiella che si raccontano gli adulti che parlare del suicidio lo farà venire in mente, è falsa. È pieno di adolescenti che ci pensano e se fossero liberi di parlarne si abbasserebbe il fattore di rischio».
Educare al fallimento
Quindi educare al fallimento, cioè poter parlare del dolore, della morte. Per «identificarsi», con uno sguardo che va oltre l’empatia «ma consenta sin da bambini di esprimere le fatiche, sofferenze e le emozioni negative non chiedendo loro di farsi carico di sguardi troppo angoscianti di mamma e papà».
Offrire un futuro
Offrire un futuro: «Far sentire che ci sono politiche che guardano avanti. Coinvolgerli. La scuola da questo punto di vista potrebbe fare moltissimo, anche perché è il luogo migliore dove i ragazzi possono stare». Senza continuare a trattarli pensando che siano uguali ai ragazzi di ieri.