Gesù ebreo e la Palestina
Dopo cento volte che leggo di presepi popolati di arabi vorrei sommessamente ricordare che, salvo macchine del tempo, gli arabi a Betlemme sono arrivati circa sei secoli dopo.
Gesù era ebreo. Ovviamente e inconfutabilmente ebreo. Era circonciso, celebrava la Pasqua ebraica, pregava in sinagoga.
Mi dispiace per il pugile triestino, ma anche nel catechismo della Chiesa cattolica, che cita Luca, si legge che Maria era “una figlia d’Israele, una giovane ebrea di Nazaret in Galilea, «una vergine promessa sposa di un uomo della casa di Davide, chiamato Giuseppe».
Quanto al “Gesù palestinese”, bisogna tener presente che il nome Palestina fu ufficialmente dato alla regione oltre un secolo dopo, dai Romani. E quando in seguito è stato usato, nella storia, il nome palestinese stava a indicare chiunque abitasse in Palestina, senza connotazioni etniche o religiose. Quindi “palestinesi” erano considerati e chiamati (oltre agli arabi) anche gli ebrei, e questo almeno fino alla fine degli anni Sessanta.
A questo proposito, nella sinagoga di Porta Romana, è conservato il documento d’identità rilasciato dalle autorità britanniche alla moglie di un soldato della Brigata ebraica, che dagli inglesi viene qualificata come moglie di “soldato palestinese”, e lui era chiaramente ebreo. Ancora: il “Palestine regiment” inquadrato nell’esercito di Sua Maestà britannica era composto da tre battaglioni di ebrei e uno di arabi. E il giornale sionista che il 16 maggio 1948 titolò “State of Israel is born”, si chiamava “Palestine post”. C’è bisogno di andare oltre?
Fino a 50 anni fa, insomma, non esisteva l’equazione esclusiva palestinese=arabo. Poi è subentrata la narrazione della Palestina come nazione araba distinta dagli altri Paesi arabi.
Tutto ciò per dire che Gesù quando è vissuto era ebreo, e dal 130 al 1967 sarebbe stato considerato un ebreo-palestinese.