“Agghiaccianti i discorsi di Santoro e Galimberti sugli ebrei”
«Agghiacciante». È rimasto senza parole Vittorio Robiati Bendaud, studioso ebreo italiano, scrittore e saggista, per le parole pronunciate da un lato da Michele Santoro, guru televisivo dell’anti-Occidente, e dall’altro da Umberto Galimberti, filosofo fra i più seguiti e riveriti a sinistra.
A «Di Martedì», due sere fa, Michele Santoro ha sentenziato che «gli ebrei hanno subito un dolore così grande che sono incapaci di sentire quello degli altri». Parole che hanno lasciato molti telespettatori a bocca aperta, pur conoscendolo. E Galimberti, ospite domenica sera di un evento dedicato alla Giornata della Memoria al Teatro Parenti di Milano, partecipando alla presentazione di «Il nemico ideale», un bel libro di Natania Zevi che con delicatezza e acume parla di identità ebraica, si è avventurato – come riporta anche il resoconto della «Repubblica» – in un discorso che ha gelato molti anche in platea: «Sarebbe una cosa buona se gli ebrei riducono (riducessero, ndr) un po’ la loro identità» ha detto, spiegando anche che «antisemita non vuol dire anti-ebreo». «Sono semiti anche i palestinesi, gli arabi, i turchi, gli armeni». «Cominciamo a diluire il concetto di semita» ha concluso.
«Questo discorso, come viene riportato è a dir poco agghiacciante, e pasticciato – commenta Robiati Bendaud – Intanto, niente di più falso di ciò che Galimberti afferma indirettamente sulle lingue. I linguisti hanno raggruppato le lingue per ceppi, e sappiamo che arabo, ebraico ed amarico sono lingue semitiche. Il turco invece, e già qui c’è un errore clamoroso, è una lingua centro-asiatica, altaica. L’armeno è una lingua indoeuropea. Ma, al di là di questo, Galimberti usa malamente i riferimenti linguistici per scivolare su civiltà e gruppi etnici, o, come si sarebbe detto un tempo, “razziali”. E qui c’è uno slittamento macroscopico e inquietante, lo stesso che ritroviamo nel discorso culturale e accademico ottocentesco che poi portò all’antisemitismo razziale. Lo slittamento dal linguistico al campo etnico-razziale – spiega Bendaud – è quanto di più pericoloso possa esserci, anche perché esiste una sola razza, quella umana». «Il ragionamento di Galimberti, per come riportato, è un vero pastrocchio – prosegue lo studioso – e stupisce assai che nessuno lo abbia corretto, neanche il direttore Molinari».
Si arriva quindi al discorso sull’identità. «Non mi risulta, intanto, che l’identità turca sia debole o remissiva, e ancor meno mi risulta che sia aggressiva quella armena! – obietta Bendaud – O che sia diluita l’identità araba, anzi. Allora non si capisce proprio perché il problema sia l’identità ebraica». «Qui c’è anche un problema di metodo, che riguarda la contrapposizione fra identità e dialogo. Il professore dovrebbe sapere bene che, partendo da Platone, la verità dimora sì nel dialogo, tuttavia, sempre nel dialogo c’è una verità che viene ricercata e affermata e una menzogna che viene confutata e respinta. Il dialogo è anche tensione e polemos». Non significa insomma che tutti abbiano ragione. «Il dialogo autentico fra esseri umani e tra gruppi religiosi, è stato possibile solo in società laiche e secolarizzate – cioè in Occidente, finché dura. E tale dialogo è vero e attendibile solo ove cioè agiscano identità non svilite o addomesticate».
Il dialogo dunque non annacqua l’identità. E in ogni caso, perché dovrebbe ridimensionarsi proprio l’identità ebraica? «Nell’Ottocento – ricorda Bendaud – moltissimi ebrei, immaginandosi inclusi nella società che stava riconoscendo loro qualche diritto, per farsi accettare si imposero un autoridimensionamento della loro identità. Diedero un contributo senza pari all’unità d’Italia e alla Grande guerra ma le sinagoghe dell’epoca, per esempio, in tutta Europa erano spesso costruite ispirandosi alle chiese. Nessun ebreo si è mai lamentato delle croci sulle montagne, e Primo Levi per dire era uno scalatore. Ma in questo processo che attraversò l’ebraismo tra Ottocento e Novecento, gli ebrei divennero irriconoscibili, invisibili, e quindi, paradossalmente, per la subcultura antisemita ancor più pericolosi». Insomma, stemperare o negare in parte la propria identità non servì affatto a metterli al riparo dall’odio, anzi. E questo Galimberti non lo sa o fa finta di non saperlo.
E Santoro? Due sere fa, a «Di Martedì», ha detto: «Gli ebrei hanno subito un dolore così grande che sono incapaci di sentire quello degli altri». Parole che hanno lasciato molti a bocca aperta. «Sono le argomentazioni di un parapsicologismo perverso e da operetta – obietta Bendaud – solo meno sfacciato del solito ritornello per cui la vittima sarebbe diventata carnefice, ma è la stessa robaccia, una variazione del trito discorso ostile, secondo cui saremmo “diventati mostri”». «Per dirla con le drammatiche parole del rabbino Riccardo Di Segni, dall’accusa di deicidio si è approdati a quella di genocidio». «Santoro – replica Bendaud – sappia che il dramma genocidario è, per ciascuna vittima, anche personale, e noi abbiamo patito milioni di drammi. Ma la senatrice Segre, per esempio, non mi pare sia diventata una cinica vittima, superstite a se stessa, dall’empatia perduta. Non mi risulta sia accaduto a Elie Wiesel o Edith Bruck, a Sami Modiano o a Primo Levi. E vale anche per Antonia Arslan, discendente di sopravvissuti al genocidio armeno”. «Quello che fa Santoro, dunque, consapevolmente o meno, in questa specie di linguaggio psicologico, è una variante più raffinata, <CF201>politically correct</CF>, del solito discorso che va a parare nell’antisemitismo. Il problema degli israeliani, come degli armeni, oggi, è di sopravvivere, e la sopravvivenza costa e prevede il tirar fuori le unghie per difendersi. Certamente fa sanguinare il cuore il dramma patito dalla popolazione araba palestinese. È straziante ma va detto che in soverchia misura, le responsabilità pluridecennali sono del mondo arabo, islamico e, in ambito locale-nazionale, delle dirigenze palestinesi».
«La questione caucasica e quella mediorientale sono ancora ineluse – riflette Bendaud – Le popolazioni islamiche, sia quelle turco-azere sia quelle arabe, vivono su territori sconfinati, e il problema sarebbero pochissimi milioni di armeni o di ebrei in territori davvero ridotti e continuamente sotto assedio? La verità è che ebrei e armeni rischiano ancora oggi di essere vittime, come lo sono già stati, di turchi, Fratelli musulmani, islam politico, nonché della cattiva cultura occidentale. E se non ci fosse quella identità resiliente, che tanto disturba Galimberti, si sarebbero già estinti, sarebbero già scomparsi e dimenticati. Invece, nonostante tutto, resistono, nonostante siano minoritari e minacciati dall’ipertrofia di altri popoli e dal nichilismo dell’occidente».
«Non di rado capita che tutti noi diciamo scemenze – conclude Robiati Bendaud – ma stupisce che lo faccia chi dovrebbe maneggiare con cognizione questi argomenti e informare o insegnare. D’altra parte, siamo nell’era della stronzata, come ha teorizzato Henry Frankfurt, e la stronzata è peggio della menzogna. Chi mente sa di mentire, e la menzogna, pur tradendola, non può prescindere dalla verità. La stronzata, invece, non ha rapporto alcuno con la verità: è indifferente a essa. Si basa solo sul valore performativo dell’affermazione, sui suoi effetti, su quanto possa funzionare».