03Gen 12
Morire d’impresa
Non sono solo nomi su una lapide. Se prendi questo filo scuro e lo segui, un giorno dopo l’altro, ti accorgi che quello che sta accadendo non è per niente normale. È il romanzo nero di questa crisi. È una fila di croci che dal Nord Est arriva fino in Sicilia.
Dieci nomi, dieci storie, dieci vite spezzate. Tutte con la stessa trama. Arriva un momento in cui non ci credi più. Non ce la fai neppure a sperare. Non ce la fai ad alzarti la mattina e dire «ancora ci provo». Non bastano le promesse, i discorsi del cavolo sullo spread, le rassicurazioni dell’anno che verrà. Quello che vedi è solo questa maledetta crisi, quella vera, quella che ti manda il conto in rosso, quella con le banche che non ti fanno più credito, con gli operai che non sai come pagare, con lo Stato che ti deve dei soldi e ti dice di aspettare, con il fisco che invece bussa alla tua porta. Da novembre a oggi si sono ammazzati nove imprenditori e un pensionato.
Questi suicidi parlano di economia reale. Non è la disperazione delle borse. Non è il lutto dei lunedì neri. Non che faccia differenza. La morte è morte, ma questa sembra più lenta, sfibrante, meditata giorno dopo giorno, come se alla fine la crisi ti avesse stremato, perch´ dopo tanto lavoro, tanta impresa, tanto rischio, non c’è più nulla da fare. È come se gli imprenditori preferissero sparire, lasciando agli altri la fatica di Atlante, quella di chi si alza e si costruisce un futuro. Non è solo la disperazione. Queste morti parlano anche di vergogna. No, non quella dei ladri o dei fannulloni. Quella di chi bene o male ha legato il suo destino ad altri uomini, i suoi dipendenti, le loro famiglie e non ce la fa a santificare questo lungo otto settembre. Non ce la fanno a dire: tutti a casa, tornate quando il peggio è passato.
È la storia di Giancarlo Perin, da Borgoricco, nome beffardo in provincia di Padova, imprenditore edile. Si impicca il 18 novembre alla benna dei suoi macchinari. Lascia un biglietto in cui chiede perdono: «Sono distrutto dai debiti». È Giovanni Schiavon che punta la pistola alla tempia e spara. Troppi debiti anche per lui e crediti per 200mila euro dallo Stato. Mai arrivati. Due morti a Spresiano, vicino Treviso. Una ristoratrice e un consulente finanziario. A 15 giorni di distanza scelgono la stessa stazione ferroviaria per morire. È l’artigiano di Campodarsego, Padova, titolare di una ditta di pitture edili: si impicca a una grondaia il 28 dicembre. Non riusciva a recuperare i suoi crediti. Lascia un biglietto: «Situazione insostenibile». È il muratore di Montecchio Maggiore, Vicenza, la notte di Capodanno si uccide nella sua azienda. I conti sono in ordine, ma era angosciato dal futuro, dalla crisi. È il proprietario di una concessionaria di Catania, con il fatturato ridotto di un terzo e costretto a licenziare i dipendenti. È l’allevatore di polli, Michele Calì, impaurito dai conti in rosso. È l’agricoltore di Montefiore dell’Aso, Fermo, ossessionato dalla crisi. È il pensionato di Bari che si getta dal quarto piano, durante le feste ha saputo che doveva restituire cinquemila euro all’Inps. Nessuno di loro è morto guardando lo spread.
Dieci nomi, dieci storie, dieci vite spezzate. Tutte con la stessa trama. Arriva un momento in cui non ci credi più. Non ce la fai neppure a sperare. Non ce la fai ad alzarti la mattina e dire «ancora ci provo». Non bastano le promesse, i discorsi del cavolo sullo spread, le rassicurazioni dell’anno che verrà. Quello che vedi è solo questa maledetta crisi, quella vera, quella che ti manda il conto in rosso, quella con le banche che non ti fanno più credito, con gli operai che non sai come pagare, con lo Stato che ti deve dei soldi e ti dice di aspettare, con il fisco che invece bussa alla tua porta. Da novembre a oggi si sono ammazzati nove imprenditori e un pensionato.
Questi suicidi parlano di economia reale. Non è la disperazione delle borse. Non è il lutto dei lunedì neri. Non che faccia differenza. La morte è morte, ma questa sembra più lenta, sfibrante, meditata giorno dopo giorno, come se alla fine la crisi ti avesse stremato, perch´ dopo tanto lavoro, tanta impresa, tanto rischio, non c’è più nulla da fare. È come se gli imprenditori preferissero sparire, lasciando agli altri la fatica di Atlante, quella di chi si alza e si costruisce un futuro. Non è solo la disperazione. Queste morti parlano anche di vergogna. No, non quella dei ladri o dei fannulloni. Quella di chi bene o male ha legato il suo destino ad altri uomini, i suoi dipendenti, le loro famiglie e non ce la fa a santificare questo lungo otto settembre. Non ce la fanno a dire: tutti a casa, tornate quando il peggio è passato.
È la storia di Giancarlo Perin, da Borgoricco, nome beffardo in provincia di Padova, imprenditore edile. Si impicca il 18 novembre alla benna dei suoi macchinari. Lascia un biglietto in cui chiede perdono: «Sono distrutto dai debiti». È Giovanni Schiavon che punta la pistola alla tempia e spara. Troppi debiti anche per lui e crediti per 200mila euro dallo Stato. Mai arrivati. Due morti a Spresiano, vicino Treviso. Una ristoratrice e un consulente finanziario. A 15 giorni di distanza scelgono la stessa stazione ferroviaria per morire. È l’artigiano di Campodarsego, Padova, titolare di una ditta di pitture edili: si impicca a una grondaia il 28 dicembre. Non riusciva a recuperare i suoi crediti. Lascia un biglietto: «Situazione insostenibile». È il muratore di Montecchio Maggiore, Vicenza, la notte di Capodanno si uccide nella sua azienda. I conti sono in ordine, ma era angosciato dal futuro, dalla crisi. È il proprietario di una concessionaria di Catania, con il fatturato ridotto di un terzo e costretto a licenziare i dipendenti. È l’allevatore di polli, Michele Calì, impaurito dai conti in rosso. È l’agricoltore di Montefiore dell’Aso, Fermo, ossessionato dalla crisi. È il pensionato di Bari che si getta dal quarto piano, durante le feste ha saputo che doveva restituire cinquemila euro all’Inps. Nessuno di loro è morto guardando lo spread.
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