Questi anni di infinite facezie
Questo doveva essere il futuro. Prima, prima che davvero uno ci mettesse piede, sono stati lì a scrivere, immaginare, sognare, navi da combattimento in fiamme al largo dei bastioni di Orione, viaggi nel tempo, teletrasporti, telelavori, cibernauti, argonauti, terre promesse, visitors e ufo robot. Poi il 2000 è arrivato e sono passati dieci anni. Non è che non è successo nulla. Solo che il futuro, quando ci cammini sopra, non è questa cosa straordinaria. Quasi non te ne accorgi. Il tempo passa, quotidiano, con i vigili che fanno ancora le multe, la giornata da sfangare, il mutuo, la crisi, la disoccupazione, e il futuro che diventa passato sembra uguale a tutti gli altri. Sei solo più vecchio. Solo se ti fermi un attimo e tiri una riga, come in una partita doppia, tocchi con mano che il Novecento è un altro secolo. Gli anni sono alle spalle e lasciano sulla strada una macchia, un segno indefinito, l’incertezza, la ricerca di qualcosa di solido, navigando tra il reale e l’incorporeo. Zygmunt Bauman li ha battezzati liquidi. Di certo c’è che questo non è più l’orizzonte dei padri. Il rischio non è più l’avventura, ma è qualcosa che ti entra nel dna. Si zompetta da un lavoro all’altro, sempre in bilico, rimettendo tutto in gioco, guardando al posto fisso come un miraggio antico, una leggenda, una certezza che ti accompagnava fino alla tomba. Qui di certo invece non c’è più nulla. I padri hanno dilapidato le pensioni dei figli, siglando un patto che forse non basta a sanare le coscienze. Noi vi abbiamo tolto il futuro, ma in compenso siamo il vostro welfare. È andata così e l’unica beffa è che ancora ti tocca pagare i contributi. La famiglia si è allargata, fino a evaporare. Nulla è per sempre, figuratevi l’amore. La stessa identità dell’uomo è un ircocervo, con questi laboratori dove ballano cellule chimera, umane al 99 per cento, il resto, quell’un per cento, certifica che non siamo mai stati angeli caduti, ma un ammasso di fango e di viscere, con il mistero di un’intelligenza ancora tutta da spiegare.Non è facile raccontare questi anni Zero. Sono andati via come un domino di speranze cadute. Nulla di quello che ci avevano raccontato si è realizzato. La colpa è forse di quella mappa che abbiamo smarrito e ora ci lascia incompiuti. Anni di passaggio, anni di frammenti. La storia è un susseguirsi di flash, di immagini, di fotografie, di spezzoni di vita e di ricordi scaricati dalla madre rete. Eccole le nuove chiese: YouTube, Google, e le parole spese in piazza, nell’agorà di Facebook. È qui che la storia viene triturata, frammentata, spottizzata, ridotta a presente. È la poltiglia dei vecchi quotidiani, la vittoria del frame e del lancio d’agenzia, la narrazione riportata alla materia bruta, non lavorata. Non c’è più il manufatto. C’è il grezzo, che scade in fretta. Dove va a finire tutta l’informazione consumata su Google? Che fine faranno i video scaricati da YouTube? Cosa resterà di tutte le parole scambiate su Facebook? Spam. Spazzatura. Spot.Sono anni scarnificati. Il cuore batte il tempo dei bit, come se dietro lo specchio ci fosse una seconda vita, una via di fuga da questo presente che si dilata a dismisura e non diventa mai futuro, la tentazione di aprire finalmente il vaso di Pandora e dormire, morire, sognare, forse. Il sospetto è che siamo diventati tutti avatar, maschere impalpabili che tirano a campare e scommettono su un paradiso che non c’è.
Magari ha ragione Baricco e questo è solo un cambio di civiltà. La nostra colpa è solo trovarci in un’età di mezzo, alle spalle il Novecento in macero, davanti i barbari. Arrivano da tutte le parti, i barbari. E saccheggiano, sventrano, le cittadelle della vecchia civiltà del Novecento. Baricco ha raccontato come hanno mutato il vino, i libri e il calcio. Poi ha concluso: magari a voi sembrano solo teppaglia ignorante, invece sono solo un’altra civiltà, sono i figli di una mutazione. Hanno le branchie. Noi siamo i resti di una metamorfosi interrotta. Ci sono spuntate le branchie, ma ci ostiniamo a respirare con i polmoni.Chissà se gli anni Zero si possono raccontare solo come fa Antonio Moresco, abbandonandosi ai canti del caos. I giorni cadono uno sull’altro e lasciano una catasta sparpagliata di ricordi e di rifiuti. Si va a memoria. Il baco del millennio. Le torri che si sgretolano. Bin Laden è vivo o morto? Il cappio di Saddam Hussein. L’apocalisse antimoderna dei no global. I «no tutto» e le loro ossessioni, la testata di Zidane a Materazzi, le particelle elementari di Houellebecq, Harlem che piange Michael Jackson, Shakira che fa impazzire perfino Garcia Marquez, Wojtyla «Santo subito», l’oblio dell’Afghanistan, New Orleans nuova Atlantide, un nero alla Casa Bianca, le bombe di Madrid, il velo e il crocifisso, Est ed Ovest, l’iPod, l’iPhone, l’iBook, Gollum che sbavacchia dicendo «il mio tesoro», il ritorno dei vampiri, Harry Potter e Colui-che-non-si-può-nominare, il digitale terrestre, la profezia Maya, Chiesa e pedofilia, la foto di Kate Moss che sniffa cocaina, il 2.0, i colletti bianchi della Lehman Brothers che lasciano gli uffici per l’ultima volta con gli scatoloni nelle mani, lo Tsunami, la mucca pazza, il gladiatore e i trecento spartani, la novel grafic, la rivoluzione arancione in Ucraina e lo zar Putin in Cecenia, il Papa tedesco, il G8, il lampo di Bolt a Pechino, cento colpi di spazzola prima di andare a dormire, I Denti Bianchi di Zadie Smith, Moccia è la nostra Liala? Isole dei famosi, fattorie e grandi fratelli, la vita è tutta un reality. Sull’Olimpo le muse sono state scacciate dalle veline.Frammenti. Buttati lì, passati troppo in fretta, senza il tempo per digerirli, con questo futuro appiattito sul presente, e un lungo videoclip con la musica in sottofondo e i blog che si parlano addosso, raccontando il mondo dal proprio ombelico. Come si può rimettere insieme tutti questi frammenti e farne una storia? È questa la sfida dei romanzieri. È il tentativo di ritrovare la rotta. È quello che fa Jonathan Franzen con le sue Correzioni. Il romanzo che dice all’umanità degli anni Zero che le nostre vite stanno deragliando. Ci siamo lasciati alle spalle il mondo dei padri e ora fatichiamo a trovare una strada, perché il navigatore satellitare è vecchio e la mappa, il tuttocittà, è stracciato, perduto, disperso da qualche parte nel portabagagli. È quel senso che David Foster Wallace non ha più ritrovato, fino a penzolare da una corda. L’ultima immagine come una citazione. È un corpo senza vita che dondola. È una carta dei tarocchi e la poesia di Villon. È l’impiccato. Questo ragazzo interrotto ha scritto il numero zero di questa metamorfosi. Il suo capolavoro si chiama Infinite Jest. Parla di un film perduto, che strega i suoi spettatori fino a renderli catatonici, fino all’infinito, la colonna sonora è l’infinita tristezza di un’America che non si riconosce più. È il trauma di chi ha visto cadere tutte le illusioni del secolo breve e si ritrova a vivere la progressiva smaterializzazione del mondo. Il titolo nasce da una citazione di Amleto, il famoso monologo con il teschio di Yorick, il buffone di corte, in mano: «Questo uomo io l’ho conosciuto, fu un giovanotto di infinita facezia». Infinite Jest, appunto. Questo resta: dieci anni di infinite facezie.