Il destino della Lega: Padania o Jugoslavia?
Non ha più a che fare con la Lega da quasi vent’anni. Solo che un tempo era tra i pionieri. Bazzica ancora un po’ l’ambiente ed è per questo che chiede di non fare il suo nome. “Tanto non è importante. Non ho rivelazioni da fare. Il mio è solo un ragionamento”. Questo signore che un tempo faceva politica ora si è ritirato in campagna e da lì guarda con distacco le avventure del Carroccio. C’è una parola che continua però a ronzargli nel cervello: Jugoslavia. Guarda verso Gemonio e vede Sarajevo. “Sembra la stessa storia. La federazione jugoslava scoprì che era solo un’espressione geografica che si reggeva sul carisma e la figura di Tito. Quando lui è svanito tutti hanno pensato che quella era una convivenza forzata. Ognuno aveva la sua idea di Jugoslavia, o meglio di patria, e non solo coincideva con quella degli altri, ma la stessa esistenza degli altri sembrava compromettere la propria. Ecco. Ogni volta che mi capita di pensare alla Lega mi viene in mente questo”.
Bossi non è morto e c’è chi è pronto a scommettere che al prossimo congresso si ripresenterà a chiedere conto della sua creatura. Nel frattempo, però, ognuno comincia a declinare il Carroccio a modo suo. Non che prima non lo facessero, solo ora sono convinti che la presenza degli altri sia un problema. I lùmbard vedono i veneti come parvenue, i veneti considerano i lùmbard una maledizione e le casse del partito lo dimostrano, i piemontesi fanno storia a sé, i liguri sono una minoranza che scommette sulla propria diversità, gli emiliani sostengono che sono leghisti rossi e vengono da un’altra civiltà. E poi all’nterno di ogni territorio si vedono diversi: cosa c’entra Varese con Como, Lecco o Bergamo? Per non parlare di Milano, metropoli dove la Lega non si sente mai profiondamente a casa. Oppure quanto fastidio dà al resto dei veneti il protagonismo da primo cittadino del veronese Tosi. Balcanizzazione. Questo è il fantasma.
Maroni questo lo ha capito da tempo e lavora per sopravvivere al leader carismatico del partito. Non ha il suo carisma, ma è un “amministratore”. Per riuscire a salvare la Lega dovrà appoggiarsi sul Veneto, liquidando il cerchio magico, ma dando un ruolo non periferico alle anime lombarde a lui fedele. Dove prima c’era l’entusiasmo quasi religioso e passionale dei leghisti ora serve una “burocratizzazione”, con il rischio che la normalità spenga però la diversità del Carroccio. D’altra parte il federalismo porta con sé sempre questo problema, soprattutto quando si basa sull’entusiasmo più che sul bisogno di libertà. Il vantaggio, sostengono i maroniani, è che disperdendo il “cerchio magico” il Carroccio risolve un problema, che non è solo quello del familismo. Il gruppo ristretto che ha curato e tutelato Bossi non ha mai permesso alla Lega di espandersi e trovare una sua identità extra Gemonio. Non si fidavano, di nessuno. Tutta la loro politica era restrittiva, costruire muri intorno alla loro idea del Carroccio per pochi intimi. E’ come se gestissero un’azienda familiare con la preoccupazione che qualcuno, fuori, fosse pronto a rubare il brevetto, l’idea, e la gestione di un’impresa diventata fin troppo grossa. Fino a quando il titolare era attivo non c’erano pericoli. Debole e fragile bisognava isolarlo dagli avvoltoi. E preparare la successione. In questo modo la Lega non è cresciuta quanto poteva e il figlio non era un delfino ma appunto una trota. Non esisteva più Padania, non esisteva più Veneto, Liguria, Bergamo o Treviso, Verona o Reggio Emilia. La preoccupazione del cerchio magico è che nulla oltrpassasse le mura di Gemonio. Dicono che ora Bossi nella casa di famiglia non riesce a starci troppo tempo. Si guarda intorno e si sente amareggiato e deluso. Va in via Bellerio per passare il tempo e trovare un po’ di tranquillità insieme agli amici. E’ la nostalgia di un mondo che ha perduto. Quel mondo chiamato Padania. O Jugoslavia.