I Decalamus e il canto dei pastori erranti
[photopress:decalamus_390x320_2.jpg,full,centered]Canti alla stesa. Non li avevo mai ascoltati. E’ capitato quasi per caso, con un gruppo di musica popolare che ha vinto le selezioni per il “Folkest” di Spilimbergo, un festival dedicato alla musica di tutte le culture del mondo. Si chiamano i Decalamus, ossia i dieci di Calamus, gruppo fondato da Massimo Antonelli e raccontano storie di briganti, di pastori e transumanza. Eccolo. Arriva questo suono di ciaramelle e tamburelli, una voce che parte da lontano e si allunga per arrivare fino a te. Sembra un lamento, come se un uomo cercasse di fuggire dalla sua solitudine e quel canto va alla ricerca di qualcuno che lo ascolti, una donna, un astro, una luna, una notte, un Dio, qualsiasi cosa, umana o sovrumana, che possa condividere le meraviglie di un cielo stellato e tutti i suoi segreti. Qualcuno risponde. E’ la donna (o forse la luna) e comincia una danza di parole, di botte e risposte. Non è ancora un canto d’amore. E’ rude e irriverente. Anticipa i rituali del corteggiamento. Serve a conoscersi, a capire l’altro cosa si aspetta, cosa vuole, chi è. Prima di incontrarsi i due ipotetici amanti si devono affrontare. La donna respinge l’uomo con l’ironia, l’uomo avanza schifando i colpi, perché sa che nel combattimento ravvicinato sarà lui a vincere. Il problema è arrivarci. Lei usa il jab per rallentarlo ed è una serie di graffi, l’allungo che rientra in fretta, il mordi e fuggi. Lui cerca di lavorarla ai fianchi, avanzando a testa bassa, con la speranza di arrivare all’uppercut fatale. Questo strano incontro di pugilato è tutto di voce e di suoni.
Sono i “Canti alla stesa“. Il romanzo d’amore del pastore, non importa quale sia la sua storia o la sua terra. Se si porta sulle spalle la transumanza d’annunziana o il canto errante nelle distese asiatiche, se venga dal deserto degli uomini blu o dai canyon dei bovari americani o nell’orgoglio dei butteri maremmani e nella testardaggine dei pecorai sardi o ciociari. E’ un canto improvvisato, che arriva dalle radici del tempo, un poema popolare per voce sola e il coro va immaginato. Un canto unico e irripetibile, perché trovato in quel momento, canto di desiderio, di rabbia, di lontananza. Come se tutti questi uomini senza volto condividessero alla radice la domanda di Leopardi: “Che fai tu, luna, in ciel? Dimmi, che fai, silenziosa luna? “.