Quella notte a Onna
Questa sera la voce del navigatore satellitare ha qualcosa di strano. È tesa e snervante, più del solito. Aldo Scimia è stato piuttosto vago: «Vieni prima che faccia buio, con la penombra. E vedrai tutto, anche quello che non c’è più». L’appuntamento è al crepuscolo. Lei, la voce, da un momento all’altro potrebbe mettersi a urlare: attenzione, è stata registrata una scossa di tre virgola nove di magnitudo. A questo punto tutto è possibile e invece si limita a dire «fra settanta metri girare a destra».
Eccola. È laggiù. Quella era Onna. Qui la strada si interrompe, proprio dove c’è l’incrocio e comincia il paese. Aldo aspetta lì. Da lontano sembra un hobbit, con occhiali e pizzetto bianco, e qualcosa di brutto ha appena spazzato via la sua contea. Fa segno di parcheggiare più in là, sul prato, davanti a quell’accampamento di tende. Indica con il dito il cielo rossastro che scompare all’orizzonte: «Quando è così non sai mai se farà bel tempo o terremoto». Aldo Scimia è il vigile urbano, è l’uomo che studia il futuro energetico delle biomasse, è l’autore di un libro sulla lavorazione della canapa, è lo storico e il narratore.
È il custode. È la memoria di Onna. Le sagome di case, ruderi e macerie si perdono in questo cielo che sta diventando sempre più scuro. Questa sera Onna è gli occhi di Aldo. È come era prima del terremoto. Tornano i quattro casali e le porte a botte, e i nomi delle strade, i morti di ieri e quelli del passato. Onna è contadina, grano e barbabietole. È transumanza. Onna è il Vera e l’Aterno, i due fiumi, il primo è quello buono, l’altro è violento, torrente scuro che ti trascina via. Onna si misura a coppi di terra, e ogni coppo segna700 metriquadri. È tre dita di una mano, come un delta, come le tre strade che si rincontrano al centro del paese. La strada nova, che arriva qui fino al confine, quella che i romani chiamavanola Nova Claudia. La via Oppietti, dove al numero sei c’era la biblioteca. E via Aterno, quella che porta al fiume. Ogni strada di Onna è un ruga, una traccia di memoria: via del carro rotto, via delle massale, via della propositura, via del fagocchio. Lì lavoravano la canapa, qui c’erano i falegnami, laggiù c’era la chiesa. E in mezzo a queste l’antico tratturo, il sentiero di nessuno, dove passavano i pastori, dal tavoliere ai monti, dalla Puglia all’Abruzzo. È rimasto lì, e neppure il terremoto l’ha sepolto. Non sai bene perché, ma da tempo a Onna non c’erano bar. Aldo dice così. Le ultime cantine hanno chiuso le porte una trentina di anni fa. L’Aquila, nucleo forte, troppo vicina, si è mangiato tutto, anche le osterie. È qui, che nell’altro secolo, i fratelli Sbroglia di via dei calzolari salutarono tutti e se ne andarono in America: Columbus e poi Philadelphia a fare le railroad. Qui, nelle cantine, Ricuccio il vagabondo veniva a spendere le sue ultime lire. «Ricuccio girava per le strade del centro, con quell’enorme cappotto liso, grigio e sporco che lo avvolgeva due volte, sempre addosso, anche d’estate, bussava alle porte e aspettava pazientemente che qualcuno rispondesse». Aldo racconta, ricorda, parla. Vede l’attore. Benedetto di Gregorio, «al secolo e per tutti Nettino e la sua automobile sudcoreana dal colore indefinito tra il rosa e l’arancione. Qualcuno dice che l’ha comprata così per farsi riconoscere. Come sempre, fino a 83 anni, quando se ne è andato via, l’ultima estate. In tempo per perdersi il terremoto». Da qualche parte cerca la sua casa e le strade che conosceva Alceste l’Ardito, classe 1897, Cavaliere di Vittorio Veneto, vedovo troppo giovane, che ancora negli anni ’70 cantava: «Finita questa guerra tutti saranno eroi, racconteranno ai posteri quel che facemmo noi». Onna è un paese strano. Erano 300 abitanti, e molti di più al cimitero. Ma nessuno dimentica mai nulla, né i vivi né i morti. E ogni anno al «Sabato del villaggio» premiano con il fagiolo d’oro, il fagiolo bianco tondo di Onna, un compaesano da lasciare alla storia.
Aldo non dice a chi toccherà in quest’anno nero, disgraziato. È quasi notte e i suoi occhi sono umidi. E il dolore è troppo grande per ricordarli tutti. Aldo pensa a Fabio che è tornato da Roma per stare vicino alla nonna. La terra trema, la terra fa paura. La terra è tutto. La vecchia e lo studente ritrovati accanto, il giorno dopo, morti. Come si chiamano Romeo e Giulietta, qui, ad Onna? Una fuga d’amore, via dalle famiglie contrarie e divise. Si va, si dorme insieme e poi si torna a casa. Così quello che è fatto è fatto. Dove? Ad Onna va bene. Dormiamo lì. Ed era la notte d’amore sbagliata. Aldo pensa a Giustino, Giustino Parisse, il suo amico, quello con cui ha scritto libri, il giornalista del Centro, quotidiano d’Abruzzo, l’altro spicchio della memoria, che sotto questa terra ha lasciato due figli, e non avevano vent’anni. E alle suore, quelle arrivate qui da Sestri Levante, più di un secolo fa. Ai bambini salvati e a quelli che non ce l’hanno fatta. Aldo pensa alla madre. A mamma Dina. «Sono uscito di casa e vedevo che Onna non c’era più. Ho fatto il giro per tre volte di tutto il paese. Ero Ettore inseguito da Achille. Non l’ho trovata. Ho saputo che era morta da mia cugina, che vive in Croazia. Lo avevano detto in televisione. Hanno trovato la fornaia di Onna. E tutti abbiamo capito che era lei. Mia madre, 72 anni, e una vita a gestire l’unico forno di questo paese». Aldo si siede. Siamo al centro di Onna, il centro esatto. Si siede su un sasso di80 centimetri, residuo di un vecchio mulino medioevale. «È qui da sempre». Aldo Scimia sa che ci vorranno anni per ricostruire tutto. Ma tornerete qui? «E dove sennò. Qui c’è lo spiritus loci. Qui ci sono Ricuccio, Nestino, Alceste. Qui i tedeschi hanno fatto strage di uomini. Qui ci sono i figli di Giustino. E Romeo e Giulietta. Qui c’è mia madre. Non possiamo lasciarli soli».