Dan Simmons e il futuro in flashback
La data non è scelta a caso, 2032. Arriva esattamente un secolo dopo la Grande Depressione. Non il ’29, ma l’anno più nero, quello in cui la crisi finanziaria è planata da Wall Street sui marciapiedi, con le file di diseredati alle mense di carità, con i treni vagabondi, la disoccupazione come prospettiva di futuro, i romanzi di Steinbeck e Nelson Algren e le canzoni di Woody Guthrie, allora ventenne e con un padre fallito. Dan Simmons nelle cene con gli amici continua a ripetere una battuta presa a prestito da Vonnegut: gli scrittori di fantascienza sono come i canarini nella miniera, sono il segnale d’allarme che annuncia la catastrofe. Vedono prima, sentono prima, sperano di sbagliarsi, ma la minaccia diventa un’ossessione. È un pensiero che ti rimbalza nella testa, fino a farti cambiare idee, abitudini, vestiti culturali e purtroppo spesso anche amici. Il guaio è che questi signori, come Cassandra, spesso ci azzeccano. La fantascienza è l’opposto della filosofia: dove la ragione vede paradisi, la visione racconta il lato marcio delle utopie. Il sospetto è che questi narratori di mondi futuri siano spesso più razionali dei filosofi. L’ultimo romanzo di Dan Simmons è arrivato in Italia da poco e come c’è scritto sulla copertina a “soli nove euro e novanta”. Si chiama Flashback (editore Fanucci) e ci racconta come saremo tra vent’anni. L’unica consolazione sarà sprofondare nei ricordi. È la retromania che viene sintetizzata come droga. È il rifugio in un’epoca lontana «quando ogni merda non era piovuta». Quella droga, venduta a fiale, la chiamano appunto “flashback”. Proust in fondo lo aveva già intuito. «Troviamo un po’ di tutto nella nostra memoria; è una specie di farmacia, una specie di laboratorio chimico, in cui la nostra mano brancolante può posarsi ora su una droga sedativa, ora su un veleno pericoloso». Il passato è quello che ti resta quando tutto il futuro è andato a puttane. L’America è un’immagine putrida. Sono rimasti 44 stati, fragili, poveri, dove i giovani senza speranza si fanno di ricordi dozzinali, violenze di gruppo su ragazze di altre gang da rivedere e rivedere per godere ancora e poi a 17 anni si arruolano nelle forze ausiliare giapponesi, come mercenari di stato, venduti dallo stato. La reconquista ispanica ha sottratto a Washington gran parte del Sud Ovest, ormai chiamato Nuevo Mexico. L’Alaska è una repubblica indipendente fondata sul petrolio. Il Texas riscopre l’onore di Dixieland e ha avuto la sua indipendenza. La religione ufficiale di quel che resta degli United States of America è l’Islam. A Ground Zero sorge la più grande moschea dell’Occidente e l’11 settembre viene festeggiato come festa nazionale. Quel giorno del 2001, insegnano nelle scuole, è iniziata la resistenza contro l’imperialismo americano, prima tappa del nuovo ordine che mira al Nuovo Califfato Globale. È il giorno dei martiri, degli eroi che a costo della vita dirottarono due aerei contro la bestemmia di quelle due torri che pretendevano di scalare il cielo. Le rare campane rimaste a Los Angeles accompagnano il canto dei muezzin. Al Jazeera trasmette 24 ore su 24 decapitazioni, fustigazioni e altri verdetti della sharia. Una repubblica islamica si estende dal Libano al Sudan e anche in Europa sorgono nuovi califfati, dopo che Bruxelles ha concesso ampie deroghe legislative all’Islam. Israele è stata rasa al suolo da undici testate nucleari. Il resto degli ebrei vive in ghetti che assomigliano a zoo. Che cavolo è successo e quando? Il virus di una crisi economica che si ripete un anno dopo l’altro, senza fine, è apparso nel 2008. Al resto ci ha pensato Obama, quando l’America decise di essere “una nazione come le altre”. Per tutti questi anni si è continuato a dire: l’economia tornerà a crescere, mentre a crescere era solo il debito pubblico. Un vecchio economista ubriaco mostra, nel 2011 di Flashback, i grafici futuri del rapporto debito/Pil. «L’economia tornerà a crescere? È quello che dicevano tre anni fa. E ogni ripresa di Wall Street è stata traballante come un veterano dell’Iraq tetraplegico. E l’economia, che non è la stessa cosa di Wall Street, è peggio. Le piccole imprese vengono tassate e costrette a chiudere. La disoccupazione aumenta di nuovo. Diavolo, per la prima volta dagli anni ’30 del secolo scorso in questo Paese c’è una classe permanente di disoccupati. L’inflazione sta tornando peggio di prima, rendendo tutti più poveri ogni giorno che passa. I consumatori non spendono. Non si compra. Le banche non fanno credito». «Il Presidente ha parecchia gente sveglia intorno a sé». «Ormai è troppo tardi per la gente sveglia», il vecchio economista fissò il suo bicchiere di scotch vuoto e si accigliò come se fosse stato derubato, «la gente sveglia è quella che ha fottuto questo Paese e il mondo per i nostri nipoti. Se lo ricordi». Il disastro è la conseguenza delle spese sociali, di un welfare bucato e sull’idea che lo Stato ha il dovere di mantenere tutti. Questo è lo scenario che vede il canarino dentro la miniera. Ora bisogna solo augurarsi che le sue visioni siano solo le ossessioni di un ex professore liberal che si è convertito alle idee della destra repubblicana. Dan Simmons è uno di quegli intellettuali che si è ribellato contro le consuetudini politiche del mondo delle lettere. La scossa, come per altri americani, è arrivata l’11 settembre. Non ha capito. Non ha capito non solo l’aggressione dei terroristi, ma si è chiesto che America fosse quella che giustificava l’attentato alle Twin Towers, quel senso di colpa del «in fondo ce la siamo cercata», il dover per forza essere solidali con chi ti piomba in casa e fa strage di umani. Non ha capito e allora ha cominciato a dire quello che pensava. Lo ha detto a sua moglie, ai suoi amici, ai lettori, ai colleghi che cominciavano a guardarlo con sospetto, ai blog di lettori, ai suoi traduttori europei che hanno smesso di considerarlo uno scrittore di culto. Simmons se ne frega. Non si sente, come dicono con disprezzo, un bushiano retrogrado. Se non disprezza Bush è perché vede nel vecchio presidente un male minore rispetto alla deriva di Obama. Simmons è semplicemente un libertario e pensa che il destino dell’America sia la difesa della libertà contro gli invasati che vogliono imporre la sharia al mondo. Crede che la costituzione americana sia più tollerante del Corano. Non si fida di chi, per avere successo, assolutizza le minoranze etniche e trasforma la giusta tutela di tutti i diritti individuali nella dittatura del politicamente corretto. È per questo che arriva a consigliare a un suo lettore di denunciare una studentessa palestinese che gli aveva confidato online l’odio che nutre contro Israele. Scelta che ha provocato il disprezzo del suo traduttore italiano. Eppure in tutti i suoi romanzi Simmons mette al primo posto la forza delle scelte individuali contro il sistema, contro chi ti promette il paradiso in terra, l’umanesimo contro l’utopia. Nella saga di Hyperion Aenea, la ragazza destinata a portare il genere umano al gradino successivo dell’evoluzione, lascia un solo consiglio all’umanità, un unico motto racchiuso in due parole: «Scegliete ancora». Nel 2700 gli esseri umani si sono diffusi in tutto l’universo. I pianeti sono collegati con un sistema di teletrasporto che Simmons definisce World Web (alcuni pensano che sia stato proprio lui a ispirare il World Wide Web). Anche qui c’è una religione che vuole controllare il potere e le vite di ogni individuo. Ma il centro della storia è il viaggio di sette pellegrini verso Hyperion, un ultimo viaggio prima dell’Armageddon, tutti in cerca di una risposta agli enigmi della propria vita. Solo uno sopravviverà. Ognuno di loro deve però raccontare agli altri la propria storia e dimostrare di non essere una spia. È così che i Canti di Hyperion seguono la stessa struttura dei Cantebury Tales di Chaucer e guardano da vicino il Decameron di Boccaccio. Hyperion è il pianeta dell’Egemonia, oltre che il titolo di un poema incompleto di Keats, ed è costruito su un immenso labirinto sotterraneo che porta alle Tombe del Tempo, presidiate dallo Shrike, il signore della sofferenza, un semidio sul cui culto è nata una Chiesa. È lui a fare la domanda finale ai sette pellegrini. Il gioco di Simmons è spesso quello di far entrare nei suoi scenari futuribili l’eco della letteratura classica. Non a casa la saga che lui stesso considera il suo capolavoro è Ilium. Cosa accade se un professore di storia, il professor Hockenberry, si ritrova a rivivere la guerra di Troia su Marte? Non c’è solo la scena epica, ma è il rapporto tra la morale degli dei, superuomini con l’etica di bambini, e quella degli ultimi umani che hanno rinnegato il loro umanesimo. Simmons è un viaggiatore nei confini dei generi: dalla fantascienza all’horror, dal poliziesco al giallo, dal western al romanzo di formazione. È in Danza macabra che affronta i peccati della sua generazione. Qui parla dei vampiri della mente. Sono questi vecchi che si cibano dei cervelli delle future generazioni, ne succhiano ogni originalità per ripetere all’infinito le loro idee. «La loro abilità parapsicologica è una maledizione. Non gli permette di andare oltre la pretesa di ottenere gratificazioni immediate. In termini evolutivi sono superuomini. Dal punto di vista dello sviluppo psicologico sono dei ritardati. In termini morali sono subumani». Sono i vostri professori. Sono gli eroi degli anni ’70 che in nome di una rivoluzione culturale hanno conquistato tutto il potere. Sono i signori della storia e i maestri del pensiero venerati da giornali e televisioni. Sono quelli che si sono mangiati il futuro. Sono i vampiri del XXI secolo. Spezzate i loro cuori.