Non è un uomo da disincanto. Antonio Moresco ha la faccia sghemba, come i matti di paese, con il naso lungo e storto, gli occhi come acqua di pozzanghera. È il volto di uno che potrebbe ammazzarti o stupirti. Mantova in passato è stata la sua città. Qui è stato bambino. Conosce le strade dei Gonzaga e in fretta ha capito che sanno di sale. Ora ci cammina quasi come uno straniero, senza salutare nessuno, senza ricordare nessuno. Questa passeggiata di fine autunno è il suo ultimo sprazzo di libertà. Tra qualche giorno si chiuderà in casa per pagare un debito che almeno da un lustro ha con se stesso. Il debito ha un nome: Canti del Caos. Terzo tomo, la conclusione. «Ci vorranno due o tre anni», dice. Due o tre anni da recluso, da anacoreta, di servizio totale, come quando si va in carcere o in convento, oppure nel deserto. È la sua fatica, quella per cui vale la pena scommettere una vita, la sfida al tempo, all’oblio, ai disinganni, a tutte le volte che gli hanno detto no. Quando avrà scritto l’ultima parola dei Canti del Caos Moresco sentirà di aver fatto i conti con i giganti,
gli immortali, quelli con cui ha cercato tutti i giorni della sua vita di dialogare.
Moresco è nato nel 1947. Ed è uno scrittore che è arrivato tardi. «Avevo 45 anni quando Bollati Boringhieri mi ha pubblicato Clandestinità. Quasi un vecchio. Avevo mandato le bozze ovunque. Tanti no, un solo sì. Era il ’93 e sono diventato uno scrittore anche sulla carta». Quello che c’è prima è una vita che si porta dentro pezzi di storia italiana, come uno sceneggiato televisivo. Moresco l’ha raccontata in Zio Demostene. Vita di randagi (Effigie). Sembra che abbia attraversato il secolo. «Zio Demostene era il fratello di mio padre. Mi hanno sempre detto che gli somiglio, nel fisico e nel carattere. È stato un vagabondo, uno segnalato dalla polizia come strambo, un diffidato politico in odore di antifascismo. Il contrario di mio padre e di mio nonno, allineati al fascismo. Ho vissuto in casa una guerra civile».
La storia della famiglia Moresco comincia da Mason, nel profondo Veneto, tra Breganze e Marostica, in provincia di Vicenza. È lì che nonno Pietro costruisce la sua casa, raccogliendo sassi e pietre da un torrente, che poi carica su un carretto fino al paese. «Lo vedevano passare continuamente e sussurravano el xe mato. Anche perché la fama di uno strano ce l’aveva da tempo. Il nonno era di Mure, un posto lì vicino. È stato lui il primo a lasciare la campagna, a fare il salto, che nel suo caso voleva dire un posticino come guardia carceraria. Da dove venissero quelli prima di lui non lo so.Forse venivano dalla Spagna, prima ancora dai Paesi nordafricani o mediorientali, arabi o ebrei convertiti a forza, magari marranos, moriscos, cacciati dalla Spagna dopo la Reconquista, discendenti dei mudéjar medioevali, arrivati probabilmente qui nel Seicento e chiamati così dalla popolazione per distinguerli dagli altri, come adesso i venditori ambulanti africani vengono chiamati vu’ cumprà».
Lui è vissuto tra due mondi. È cresciuto in una villa con un grande parco, cani da caccia, stanze fredde, il ricordo di un lusso perduto e quarti di nobiltà in declino. «È la stessa villa – ricorda Moresco – in cui molti anni dopo Bertolucci girò Novecento». Solo che Antonio lì non era il padrone di casa, ma il figlio della serva. «Mia madre, ancora giovanissima – scrive in Zio Demostene – è andata a bussare dai Cazzaniga Donesmondi, pregando che la prendessero come servetta. L’hanno presa ed è rimasta con loro tutta la vita, in uno strano rapporto quasi medievale di confidenza familiare e servaggio,
assieme al resto della sua famiglia randagia che via via è riuscita a mettere insieme». Moresco è un uomo che vale la pena conoscere. Non soltanto per ciò che scrive. Non soltanto per quello che di lui dice Carla Benedetti, il critico che l’ha benedetto come genio. Non soltanto per il «caso» Moresco. Non soltanto perché qualcuno dice che è un bluff, una carestia per gli editori, uno che sta scrivendo un romanzo in tre volumi che sembra un frullato di allucinazioni, cazzate, pornografia, deliri d’onnipotenza, pensieri onanistici, senza uno straccio di storia al di là delle fornicazioni di un matto. Un romanzo dislessico, dove i personaggi si chiamano il Gatto, la Ragazza con l’acne, il Copy, l’Art, il Papa Elvis I, la Meringa, il Traslocatore, Amina. Un romanzo che ti racconta l’impresa di un pubblicitario che deve promuovere un prodotto chiamato mondo, qualcosa di cui il proprietario si vuole disfare ad un prezzo che appare troppo alto per tutti i poveri cristi di questa terra: e il committente si chiama – ed è – Dio. Un romanzo che, come giura Giuseppe Genna sulla rivista on line I Miserabili, è il salto quantico della letteratura italiana, «l’inversione di Nietzsche, lo sfondamento di Dostoevskij, il superamento di quella soglia a cui K. si ferma». È il quarto giorno dopo la morte di Dio, un dio che non è risorto.
Moresco è un sacerdote che si è strappato la tonaca, uno che ha fame di sacro e sente su di sé lo stesso destino di Giobbe. Ha frequentato conventi e piazze, chiese e fabbriche, qualche volta nel momento sbagliato. «In seminario ci sono stato. Ricordo le estati a Martinengo, nei luoghi dove Olmi ha girato L’albero degli zoccoli. Mangiavamo in un grande refettorio, nelle scodelle di latta ammaccata, tutti in fila lungo le tavolate con le nostre teste rasate. È lì che ho letto il primo libro della mia vita. Una storia quasi introvabile di Salgari: Il re dell’aria». Moresco non è mai diventato prete. Se ne è andato inseguendo un’altra utopia e forse un’altra chiesa. Sono gli anni della rivoluzione. Vita brada. Turni di notte da facchino. Operaio in un altoforno. L’area grigia della lotta armata, che gli passa accanto come una pallottola di striscio.
Ti chiedi come quest’uomo sia riuscito a farsi bruciare dentro tutto il Novecento e a rimanere incantato, scartando l’unica zattera di questo tempo: l’ironia postmoderna. Se c’è un motivo per incontrare Moresco è guardare negli occhi qualcuno e trovarci ancora una traccia di titanismo. E se c’è uno ed uno solo da salvare lui sceglie Leopardi. «Quando facevo l’operaio a Verona e frequentavo una scuola serale per asini portavo sempre con me in una tasca i Canti di Leopardi, in un’edizione Zanichelli del 1955. Ce l’ho ancora. È un libriccino arancione, senza più sovraccoperta. Quando creperò voglio che m’infilino quell’edizioncina dei Canti in una tasca dei jeans e poi mi brucino insieme a quella».
Ha pubblicato molto, Moresco, in questi mesi. Lo sbrego (Rizzoli) è il suo pantheon di letture. È come cercare di conoscerlo spulciando la sua lista della spesa. «Ho avuto un lungo periodo in cui non leggevo nulla. Ero preso da altre cose. Quando, dopo 10 anni, ho ricominciato, tra i libri che sono andato istintivamente a cercare – in versione tascabile, economica, perché ormai non potevo più rubarli – c’è stata l’Iliade. Omero arriva per dirci che siamo dentro qualcosa di più grande, comunque vogliamo chiamarlo, e persino gli dèi lo sono. Un’immagine forte, non consolatoria, schietta, che non ti prende in giro». Tutti gli autori di Moresco condividono questa resistenza all’umano, tutti incapaci di arrendersi, tutti come gli invitti di Faulkner. Melville? «Uno sbarellone, che a 30 anni ha chiuso i suoi conti con la letteratura. Ha dentro il germe della disobbedienza totale». Céline? «Morte a credito aveva in copertina la sua facciaccia divisa in due. Me la ricordo. Quando l’ho letto ho pensato di non aver mai incontrato nulla di simile». Teresa da Lisieux, la sua santa mistica e selvaggia. Dickens, Dante, Cervantes, Stendhal, Kafka, Dostoevskij. Il suo amore millenario per Murasaki Shikibu, la Storia di Genji il principe splendente. «Una folgorazione. I critici hanno definito il suo diario un piccolo mondo perfetto. A me sembra invece un inferno, un morbido inferno». Sono i bastioni che Moresco ha alzato contro l’odore di questo mondo. Un odore che lui chiama “restaurazione”. «È questa voglia di piccolo, micragnoso, superficiale. È la maledizione che ci è arrivata dalle Lezioni americane di Calvino, con tutte quelle balle sulla leggerezza». Moresco è un uomo che resiste al naufragio del suo tempo.

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